
di Daniele Canali
Il mondo delle cave di marmo di Carrara – dove per mondo deve essere inteso la complessa rete di relazioni storico sociali, commerciali e giuridiche – ha un fascino che spesso supera la realtà delle cose. Una ricerca storica capace di ricondurre a corretta valutazione un particolare aspetto del diritto, pur non prescindendo dal contesto, si muove con le medesime caratteristiche di una solida ricerca storica che nel materiale archivistico e bibliografico trova la propria necessaria fonte di partenza.
Questa complessa ricerca documentaria, non essendo possibile compierla diversamente che con la paziente disamina dell imponente mole di materiale archivistico, ancor oggi non digitalizzato (contrariamente a quanto avvenuto per la gran parte dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Lucca) riguardante un territorio relativamente piccolo ma estremamente complesso proprio in ragione della sua principale industria. Quello che è stato possibile dimostrare è ragionato nel contesto storico, nel suo divenire e nelle mutazioni succedutesi che, in virtù di rapporti economico sociali inseriti nella dialettica della storia, vengono cristallizzati in concetti giuridici regolanti le attività umane fino a che, lo sviluppo successivo li supera o li “contiene”
Le cave lunensi in età antica
“Nei secoli I e III, nel periodo cioè della maggiore attività, le cave delle montagne di Luni impiegavano un gruppo di lavoratori senza dubbio numeroso. (…) A Luni né soldati né dannati “ad metalla”, contrariamente a quanto avveniva in Egitto o nella Pannonia; degli schiavi, al contrario, adoratori di Silvanus (Questo culto è attestato dai ritrovamenti fatti alle Canalie, Bedizzano, Polvaccio e Gioia. Il culto di questa divinità agricola spesso passata con le sue greggi dai lavori campestri a quelli delle miniere, è segnalato nelle cave di Francia, di Germania, della Carinzia, della Siria –nota 32-) che lavorano alle cave per conto dei coloni di Luni, di proprietari privati e, più tardi, dell’imperatore o del pubblico erario. Qui, come in tutto l’Impero il regime giuridico delle cave è cambiato assai fra il momento in cui esse sono ricordate per la prima volta (I sec. A.C) e il sec. V. E’ senza dubbio importante sapere a che punto si era arrivati allorchè il commercio dei marmi “lunenses” fu interrotto; tutto l’apparato giuridico del Medioevo conserva infatti degli aspetti assai problematici- riapparizioni ben precise, ricordi diffusi, o pura coincidenza?- perché se ne possano chiarire le origini.” (C.K.Z., op.cit. pag.68)
“Nel periodo della Repubblica le cave di Luni sono di proprietà della colonia o di qualche privato. Per confisca, acquisto o eredità, le migliori a partire dal regno di Tiberio, passano nel patrimonio imperiale (crf. C.Dubois, Etudes sur l’administration des carrieres…dans le monde romaine-Paris, 1908, p.IX e succ.). Ma chiunque sia il proprietario della superficie del terreno, il principio in vigore fino al secolo V, precisamente fino all’epoca di Giustiniano, afferma il pieno diritto sul sottosuolo; nel secolo V si comincia a distinguere timidamente il diritto allo sfruttamento della cava, considerata come una specie di enfiteusi, dalla proprietà del terreno (Mispoèlet, Le regime des mines romaines et medievales -1907- pag.504). Ancora sotto Giustiniano la regola secondo la quale il sottosuolo dipende dalla superficie è assai viva per escludere in maniera assoluta il diritto regale in materia di miniere e, fino all’epoca di Costantino, i privati che sfruttano le cave non sono costretti a corrispondere alcun canone allo Stato. Il “vectigal”non si applica che alle miniere o alle cave di proprietà dello stato, sfruttate generalmente da società pubbliche”…”Nel sec. IV diverse leggi tendono a ritornare sugli antichi principi che regolavano i rapporti della superficie e del sottosuolo: tutte le leggi locali si applicano unicamente alle cave e alle miniere private. Esse affermano però già un monopolio dello Stato che autorizza o vieta a suo arbitrio l’escavazione. Nel 376 si fa per la prima volta allusione ad un canone che sanziona il diritto di estrarre in Macedonia e nella Illiria; nel 382 Teodosio emana infine una legge generale che autorizza in tutto l’impero romano lo sfruttamento dei marmi contro un doppio canone di un decimo:metà al fisco, metà al proprietario. E’in tal modo che poco a poco si è affermata la distinzione degli interessi e dei diritti degli sfruttatori del suolo e del sottosuolo, mentre lo Stato dal canto suo non cessa di affermare il proprio monopolio (legge del 393 Cod. Theod.) non lasciando più ad alcuno la libertà incontrollata di aprire e di sfruttare miniere e cave di marmo.”(C.K.Z., op.cit. pag.70).
Aspetti generali del Diritto e specifici di Diritto Comune relativi le cave tra XIII e XV secolo
Mispoulet osserva come nessuna di queste leggi implica ancora un diritto regale; lo Stato non possiede tutte le miniere, ne può concederle a chi vuole e alle condizioni che vuole. I suoi interventi nel regime della proprietà privata non hanno impedito ad essa di sussistere anche se economicamente e socialmente decaduta, ma giuridicamente ancora ben valida (pag.511) tale è il carattere più notevole delle antiche regolamentazioni della miniera e della cava, sia quella dell’oro che quella di marmo. “Questo apparato giuridico è forse scomparso nei primi secoli del Medioevo, durante il periodo tormentoso delle invasioni?” (C.K.Z., op.cit. pag.71)
Un altro interessante aspetto, che condivido ed ho puntualizzato in alcune ricerche è che “tutta la valle di Carrara conserva una forte impronta romana, mentre qualche chilometro più a sud Massa è tutta longobarda (pag.71).
Quindi, indipendentemente la difficoltosa ricostruzione storica dello sviluppo politico-sociale ed economico della valle tra la fine dell’Impero e il IX secolo, possiamo affermare che sopravvive, nella esiguità dei tempi, un diritto di derivazione romana cui si sovrappone ed interseca un diritto comune di tradizione barbarica; certo in forme fluide e a volte sporadiche ma che trova contesto nella comune appartenenza culturale di questa e delle altre comunità scaturite dalla dissoluzione di Luni in una sorta di eredità culturale comune e condivisa. Anche dal punto di vista urbanistico restano segni e toponimi di questa fusione imperfetta: Caffaggio (dal toponimo longobardo cahag, vedi) è quartiere che si aggrega sul lato nord-occidentale del torrente Carrione in contrapposizione “fisica”con il centro di derivazione romana.
I primi documenti su Carrara conservati nel codice Pelavicino del Vescovo di Luni, mostrano non solo il posto che occupa questo contingente di uomini liberi nella vita locale, ma anche come una “curtis”episcopale si è insediata sulle terre abbandonate dai marchesi Obertenghi, che erano state forse quelle stesse del Fisco Imperiale. Il centro amministrativo ed economico di questa “curtis”è molto probabilmente “Vezzale”; il centro religioso sarà ben presto la nuova pieve di S.Andrea, nel luogo attuale della vecchia città di Carrara. Negli ultimi tre secoli del medioevo si forma un “burgus”; secondo altre interpretazioni lo stesso deriva da un chiaro impianto romano ancora visibile nelle mappe del XIX secolo.
Nel 963 Ottone I conferma al Vescovo questa “curtis”con tutte le sue dipendenze, case, terreni coltivati, luoghi di pesca, montagne, vallate e vette alpine, servi e serve. ( Regesto Codice Pelavicino, p.24 n.18 del 19 maggio 963). Non sono esplicitamente citate le cave, forse perché completamente abbandonate o perché non avevano un ruolo di particolare rilievo nell’economia del periodo.
Sui diplomi ottoniani si dovrebbe aprire una lunga parentesi, ma ci asterremo dal farlo. Consacrano l’esistente ma sono”fatti in serie”…
La parola “Alpes” desta una certa attenzione: in questi paesi di montagna dalle forti tradizioni comunitarie d’origine pre-romana (confronta Sereni, op.cit, pp. 119, 330-336 etc.) il “jus alpium” o “jus montium”si è conservato dopo l’antichità fino al Medioevo; la parola “Alpes” è spesso sinonimo di “vicinalia”, territorio comune del “vicus”ligure o celtico. Qui tuttavia le “alpes” dipendono dalla “curtis” episcopale e non dalle comunità paesane, proprietarie collettive dei territori di caccia o di pascolo. Nel X secolo come fu nel II a.C. la valle di Carrara appartiene al territorio di Luni. Carrara è una derivazione del Vescovo, egli stesso erede delle tradizioni giuridiche e del patrimonio romano.
Sono ben documentati tre avvenimenti decisivi tra 1191 e 1214. Ci sono documenti e primi indizi di una rinascita del commercio dei marmi, il Vescovo si fa cedere i diritti di regalia sulle cave, si costituisce il Comune di Carrara. Da atti notarili genovesi si ha notizia di marmorarii carraresi che collaborano con gli Antelami.
Nel 1185 le cave finalmente compaiono fra le giurisdizioni ed i diritti che l’Imperatore riconosce al Vescovo “…curtem Carrarie, cum alpibus, lapicidiniis etiam marmorum, com monti bus, nemoribus…” (Diploma del 26 luglio 1185 di Federico I Barbarossa al Vescovo Petrus di Luni-RCP, pag.30-31 n.21- quindi confermato da diploma di Enrico VI, negli stessi termini, al Vescovo Rolando –RCP, p.34, n.22- 22 febbraio 1191.)
La concessione che l’Imperatore ne fa al Vescovo si fonda su di un principio più esteso, quello delle regalie che lui gli ha ceduto due anni prima con il titolo comitale (RCP, pag.98 n.314): “Concesse oggi perché ieri recuperate a Roncaglia e prima ancora riaffermate” (C.K.Z., pag .75).
Il secolo XI vede la nascita di un nuovo diritto in base al quale, nel secolo successivo, l’industria dei marmi, rinnovvelata, comincia a prosperare. L’affermazione del diritto regale che si aggiunge ai diritti signorili del vescovo e quindi la sua concessione spiegano l’aggiunta “cum alpibus, lapicidiniis etiam marmorum” esplicitato nel diploma del 1185.
Il diploma del Barbarossa si fondava su di un concetto nuovo e più “classico” dei rapporti del sottosuolo con la superficie. Nel Diritto feudale i materiali “ignobili” e le pietre delle cave possono essere abbandonati al proprietario del terreno, restando però parzialmente sottomessi al diritto di regalia; precisamente “il diritto del signore si afferma sulla produzione del sottosuolo per una concessione speciale indipendentemente dalla concessione alloidale o feudale della superficie”(A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, tomo quarto, in Storia del diritto privato, Torino 1893-4, pag.475)
Da questo principio derivava il divieto di escavazione senza l’autorizzazione del signore, ma esso non impediva per nulla ch’egli concedesse tale diritto dietro corresponsione di un canone o anche “gratis”. Nel fissare il proprio diritto sovrano per mezzo di una tassa per il diritto di ricerca e di una per l’autorizzazione necessaria all’inizio della escavazione, il signore riceveva sull’esportazione dei materiali estratti una gabella che ricorda l’antico “vectigal ad valorem”; ma il concetto feudale molto si differenzia dalle norme giuridiche dell’impero romano: il signore o l’autorità cui ha deferito i propri poteri, è padrone assoluto di tutte le cave che concede a suo piacimento; questo diritto sovrano si applica automaticamente al sottosuolo, distinguendolo così da ogni altro tipo di concessione per la superficie.
Il Vescovo di Luni esige quindi codesti diritti che, nel 1202, costituiscono ancora una importante fonte di gettito per le sue casse. La presenza di una forte popolazione di uomini liberi permette al nascente comune di negoziare i termini del potere sul territorio. Il Comune si va costituendo come una federazione di “ville”; nel 1235, al tempo della discussione sugli Statuti Comunali, le diverse ville della vallata sono rappresentate da 31 consiglieri che figurano a fianco dei due consoli “de Carraria” (RCP, p.295, n.312-313, 22 maggio 1235) I nuovi statuti prevedono 25 consiglieri all’anno e l’elezione di un Console o Podestà; come in altre parti della Lunigiana storica, la divisione a metà delle rendite fra vescovo e comune è un compromesso che consente al primo di far valere parte dei suoi diritti. Nel 1241 gli imperiali fermano la nave u cui il vescovo Guglielmo si recava a Roma per il Concilio; prigionieo per dieci anni, al suo ritorno la situazione politica è cambiata e il potere comitale del Vescovo di Luni è molto diminuito. Cede alle richieste dei suoi villici al fine di liberarli dalla loro “condizio” in cambio di moneta sonante. (RCP, n.381, 389, “ de francazione rusticorum de Carraria”). Nel 1250 le principali ville di Carrara si sono costituite in comuni rurali ed hanno i propri consoli, federate esse formano il “Comune de Carrarie”, dove nel borgo si trova il cuore amministrativo e il centro religioso della comunità. Nel 1273 il Vescovo Enrico da Fucecchio elenca i suoi sforzi per recuperare i diritti tradizionali dei suoi predecessori. Ita la spesa di 200 lire imperiali per la costruzione di case a Vezzala e di aver recuperato le cave che avrebbero dovuto ormai rendergli 50 lire all’anno e “ se esse corrispondessero con fedeltà i canoni(…) noi abbiamo indotti a pagare i maestri del marmo che non corrispondevano quasi nulla al vescovo di Luni e abbiamo posto una dogana sui marmi dalla quale il vescovo di Luni ritrae un profitto di più di cinquanta lire l’anno” (RCP, pag 644). Da un canto è evidente il desiderio di ristabilire i diritti di regalia ma, nel contempo, si deve notare come si vada delineando con chiarezza il complesso rapporto di potere tra le ville rurali, il borgo cittadino e il commune come istituzione, che sta alla base della apparizione delle vicinanze dopo l’indebolimento del potere vescovile e la rinascita, in termini nuovi, sot oil principato di Alberico.
Ci illumina, sul dibattito storiografico e le interpretazioni date, un passo molto esaustivo di Christiane Klapish Zuber che cita la tesi del Piccioli: ”Fino alla loro scomparsa all’inizio del XIX secolo, queste associazioni di capifamiglia si caratterizzavano per la loro qualità di proprietarie collettive di alcuni beni indivisi ed inalienabili, cioè gli “agri”; a Carrara esse traevano la loro forza dalla proprietà di agri particolarmente importanti, poiché molto ricchi di filoni marmiferi” ( Cesare Piccioli, Gli agri marmiferi del comune di Carrara, Carrara, 1958, pagg. 19-22).
Questa tesi, logica nel dibattito politico e giuridico dell’ultimo settantennio, rappresenta però una sintesi della questione, non lo sviluppo del processo storico economico che andremo ad evidenziare più oltre. Infatti è sempre Christiane Klapish Zuber a precisare che “Una constatazione c’è da fare innanzi tutto: le “vicinanze” non compaiono a Carrara come organismi autonomi che dopo l’apparizione dei primi comuni rurali. Né gli statuti del 1235, né le aggiunte del 1260, sebbene consacrati largamente all’organizzazione economica del territorio comunale, indicano la parte che esse avevano in tali organizzazioni, quando già esistevano i “consules villarum”e i comuni locali.(…) Inoltre gli statuti non si occupano di alcun bene collettivo; gli “usi civici” molto limitati che essi definiscono o regolamentano presuppongono la priorità delle proprietà private ben precise in cui essi si inseriscono progressivamente. Sembra dunque che il potere di regolamentazione e di amministrazione dei beni collettivi non abbia potuto essere sviluppato ed espresso dalle vicinanze se non quando si è attenuata l’autorità del Vescovo, fino allora signore dei “monti” e delle “alpes”. Il diritto delle vicinanze non è scaturito già codificato dalla lunga notte dell’alto medioevo, come taluni pretenderebbero. Della ventina di piccole “ville” del secolo XII solo una dozzina ha potuto costituirsi sotto questa forma, a cominciare dalla fine del secolo XIII. Oppressi ancora dalla armatura feudale in cui erano nati, i comuni rurali non hanno rivendicato i diritti sulle “alpes”che dopo la rivendicazione del vescovo, nel corso del sec. XIV. (Christiane Klapish Zuber, op. cit., pagg.83-84) Quindi conclude dopo poco:” Agli inizi del sec. XIV l’escavazione del marmo riprende: il potere comitale del vescovo si disgrega in ogni parte e nel 1313 Enrico VII spossessa il prelato donando a Pisa la sua contea. Ma la dottrina delle regalie si è ormai affermata in questo paese carico di antichi ricordi. Il Comune di Carrara è nato e le “ville”all’intorno cominciano a prendere coscienza della loro posizione singolare nei confronti del borgo centrale”. (C.K.Z., op.cit.,pag.85)
Da questo punto in poi il regime giuridico di natura regalistica si conserva mutando poco, nella sostanza, il principio. In base ai “Capitoli” presentati dal Comune di Carrara alla approvazione di Gian Galeazzo Visconti nel 1385 e agli Statuti del 1396 viene fatta esplicita menzione del fatto che il Comune possa disporre dei diritti di regalia connessi alla esportazione del marmo; la città chiede l’istituzione di un pedaggio sul marmo estratto dalle Alpi al fine di mantenere strade e ponti. Con questo compromesso giuridico, ben presto divenuto una consuetudine rispettata, il pedaggio, il pedaggio, trasformazione mal tollerata della dogana episcopale, è riscosso dal comune. Nel 1404 Paolo Guinigi conferma tutte le immunità e privilegi di cui essi godevano per tradizione. In pratica il comune di Carrara ha dunque raccolto l’eredità del suo antico conte. Nel 1430 Carrara si sottomette a Firenze e negli accordi si conserva questo antico diritto di regalia; così poi sotto Lucca nel 1433-34 e nel 1444 sotto Francesco Piccinino, che giurava di rispettare usi, privilegi e costumi di cui il comune aveva goduto fino allora.
“Alla fine del secolo XIV e nella prima metà del XV i marmisti, forastieri o locali lavorano dunque in piena libertà sulle “alpi” contro il pagamento di una dogana, ancora chiamata pedaggio o gabella o pensione, che colpisce in maniera uguale tutti gli esportatori: è l’esenzione da questo diritto che chiedono le Fabbriche religiose clienti assidue di Carrara. In questo periodo comunale della storia della città, l’esercizio, se non proprio il principio del diritto feudale sulle cave, espresso per mezzo della riscossione della dogana, è passato del tutto alla comunità: nessuna delle diverse vicinanze che la compongono gode di uno speciale privilegio per quanto concerne le cave e i marmi. Di conseguenza lo scalpellino interessato, dal momento che riconosce e paga la dogana si vede libero di aprire una cava dove gli sembri più opportuno”. (C.K.Z.,op.cit. pagg. 141-142)
Le cose iniziano a mutare quando nel 1448 i Fregosi ( o Campo Fregoso di Sarzana) divengono signori della città e quindi la cedettero nel 1473 al marchese Malaspina di Massa che pose le basi e per la nascita di un nuovo principato durato quattro secoli…
Esempio di contratto di vendita di una cava al Polvaccio (1530)
Antonio Leone Pulega de Torano vende a Francioso di Giovanni Ferrari da Monzone il quarto di una cava al Polvaccio, ch’egli possiede indivisa con i figli di Pietro Guidi, e la quarta parte dei marmi estratti. Il prezzo è fissato in 4 scudi d’oro (13 dicembre 1530).(ANC. Not. Galvano Parlonciotto, 1529-1530, f. 468 v).
+Die 13 dicembris 1530, indictione III.
Antonius alias Leonus olim Puleghe de Torano in presentia mei notarii testiumque infrascriptorum personaliter constitutus, ex certa anime scientia, etc. hoc presenti publico instrumento et omni meliori modo, etc, dedit vendidit et tradidit, etc. Franciono olim Iohannis Ferrari de Monzono presenti ementi stipulanti et recipienti, etc. medietatem inius medietatis cavee marmoris posite in alpibus Torani loco dicto al Polvacio, cuius tutius cavee suprascripte tales dixit et convenit esse confines vide licet iuxta heredes Iacobi alias Pollina de Casapodio habitatores Torani et heredes Iohannismatei Vannelli de Torano, vel si qui, etc. Quad medietatem dicte cavee dictus Antonius dixit habere pro indiviso cum Iacobo et Antonio fratribus et filiis olim Petri Guidi de Torano. Item et medietatem unius medietatis marmorum dicte cavee tam evulsorum quam scisso rum quam dictus Antonius habet etiam pro indiviso cum dictis fratribus. Ad habendum, etc. cum omnibus, etc.
Pro precio et nomine scuto rum 14 auri boni et iusti ponderis, de quibus dictus emptor dedit et solvit dicto venditori scutos duos coram me notarium et testibus infrascriptis videntibus, ressiduum vero dictus emptor promisit ad dictum venditorem dare et solvere hoc modo, vide licet scutos quatuor hinc ad et per totum mensem maii proxime futuri et scutos sex auri hinc ad duos annos proxime futuros et duos scutos cum primum venditio cuiusdam saxi marmorei adhuc scissi et in dicta cavea existentis facta fuerit. Constituentes, etc.
Promittentes dicte partes sibi adinvicem, etc. sub pena dupli, etc, qua soluta vel non, etc. Item reficere, etc, pro quibus omnibus, etc. obligaverunte, etc. Renuntiantes, etc.
Actum Carrarie in domo mei notarii, presentibus Franciono Spinete de Torano et Gasparino Ianoni de Vinca habitatore Codene testibus, etc.
DOCUMENTO 37 (P.411)
Proprietà pubblica e privata e regime giuridico delle cave di marmo da Alberico alla bolizione delle Vicinanze
“Con la sanzione della definitiva scomparsa delle antiche organizzazioni vicinali, veniva anzi consolidato un secolare processo di accaparramento delle fonti di produzione del marmo e di concentrazione della ricchezza proprio nelle mani di quelle prepotenti famiglie, che avevano dato vita ad una ristretta oligarchia cittadina e delle quali i Del Medico erano i principali esponenti […]
Cosí un evento come la soppressione delle Vicinanze è stato considerato il momento culminante di un rapido e violento processo d’espropriazione, da parte di una omogenea classe sociale in ascesa, nei confronti di una immutabile ed altrettanto indifferenziata società tradizionale formata da piccoli produttori diretti, oppure è stato ricondotto, indirettamente, ad una formale distruzione di un edificio ormai totalmente diroccato”(M.Della Pina, op. cit. pagg.22-23) {note 3-4-5}
“Dall’impossibilità di valutare correttamente i processi storici precedenti è derivata di conseguenza una visione che tende ad anticipare oppure a concentrare nel breve periodo fenomeni di mutamento economico e sociale molto più lunghi e contrastati. nel primo caso si rischia di sopravvalutare il peso limitato e marginale delle attività marmifere nel sec.XVI, nell’altro viene invece fortemente sottolineato il momento politico ed istituzionale insieme all’intervento di fattori esterni. Sembra pertanto sfuggire anche il reale significato dell’abolizione delle Vicinanze, evento difficilmente spiegabile fuori dal quadro del movimento storico di lungo periodo[…]il decreto del 1812 rappresenta il risultato, non certamente lineare, ed agevolato dalla presenza francese, di un secolare processo di modificazione della tradizionale società contadina, collegato all’emergere progressivo delle attività marmifere come momento fondamentale dell’economia complessiva del territorio. Esso ci appare come una conseguenza del raggiunto compromesso politico tra le forze del nuovo blocco sociale dominante, che si era formato lentamente, non senza aspri scontri, nei secoli precedenti e che risulta costituito dai ceti maggiormente legati al commercio da un lato ed ai settori dell’escavazione e della lavorazione dei marmi dall’altro. Membri della vecchia oligarchia mercantile cittadina, come i Del Medico, e nuove forze sociali emerse all’interno delle Vicinanze si ritrovano unite nel rivendicare l’eliminazione di quei vincoli che l’esistenza della struttura vicinale ancora pone, sia sul piano dell’efficienza amministrativa come su quello più generale dei rapporti sociali, all’intraprendenza economica dei singoli ed alla appropriazione privata degli agri marmiferi ”(pagg.23-25)
“ Al tempo stesso la solidità corporativa è insidiata dall’interno: mentre infatti il diritto societario minerario imponeva l’uguaglianza dei soci ed una giusta ripartizione degli oneri e dei guadagni, la natura stessa del prodotto, la localizzazione dei luoghi di produzione e la cruciale fase del trasporto del materiale dalle cave alla spiaggia di Avenza, introducono nell’Ars Marmoris elementi di graduale differenziazione. La consistenza patrimoniale e le capacità organizzative cominciano a prevalere sulla situazione di diritto, disgregando la coesione della piramide corporativa”(pag.30)
“La crisi delle strutture produttive e commerciali diviene evidente nella seconda metà del sec. XVI: di fronte all’aumento della domanda, alcuni membri più intraprendenti della corporazione tentano di superare il vecchio tipo di produzione, ossia marmi a misura sulla base di precise commesse e vanno ad offrire direttamente nei porti italiani marmi in blocchi semplicemente riquadrati, adattabili alle necessità di una clientela più vasta. I rischi e le difficoltà di questi commerci all’azzardo esercitati con capitali del tutto insufficienti, inducono il marchese di Massa Carrara, Alberico I Cybo Malaspina ad intervenire con una iniziativa di controllo della produzione e del commercio tramite l’istruzione di un Offitium Marmoris.[…] Sulla spinta delle nuove possibilità offerte dalla presenza dei capitali dei Centurioni o dei Grimaldi, compaiono le prime figure che, iniziata la carriera come mercanti, giungono al possesso delle cave senza essere passati attraverso l’esercizio del mestiere (tipica la carriera di Jacopo Diana, socio dei Grimaldi, in possesso delle cave della località più rinomata, il Polvaccio)
All’inizio del sec. XVII nell’economia complessiva del territorio carrarese il marmo rimane ancora un elemento secondario,pur rappresentando il prodotto più importante tra quelli esportati, è ancora largamente prioritario il settore agricolo. L’esportazione di marmo non supera, negli anni migliori, le mille tonnellate, la popolazione occupata nelle fasi di estrazione e trasporto è ancora molto esigua, le cave aperte sono poco numerose ed accentrate in alcune località nella zona di Torano[…] Anche se la disgregazione della struttura corporativa e l’emergere di intermediari commerciali portano ad un progressivo decadimento della posizione sociale dei cavatori, il lavoro di estrazione dei grandi blocchi continua a rimanere una attività rischiosa e difficile. La scarsa disponibilità di manodopera che in tal modo spesso si determina, si alterna con momenti di emigrazione o di ritorno alle attività agricole, in seguito alle frequenti fluttuazioni della domanda. Diviene allora essenziale esaminare il vecchio mondo chiuso, autonomo e scarsamente differenziato delle Vicinanze. Esso costituisce un ulteriore elemento frenante, che si aggiunge ai limiti anzidetti e contribuisce a mantenere le attività marmifere in un ambito marginale, oppure sotto lo stimolo delle nuove esigenze commerciali, presenta caratteri nuovi e segni di movimento? Molteplici aspetti della vita economica, sociale e politica di Carrara tra il sec.XVI e il sec.XVII convergono nel mostrarci come anche in quel mondo si stia verificando un lento superamento di vecchi ordinamenti e consuetudini, che segna il passaggio dalle strutture medievali a quelle proprie dell’età moderna, offrendo più ampie possibilità alle stesse attività marmifere”(pagg.31-32)
“Gli Estimi di questo periodo rivelano un estremo frazionamento dei terreni e la mancanza di unità produttive di grandi dimensioni. Anche le proprietà ecclesiastiche e quelle della Camera, {ACC. Catasto, Estimi della Comunità, e Estimo della Camera e luoghi pii, 1655 } date in affitto ed iscritte all’estimo, pur aumentando considerevolmente tra la fine del sec.XV e il 1655, continuano a rappresentare una porzione trascurabile del totale delle proprietà. Ci sembra invece da rilevare la crescente presenza delle colture della vite e dell’olivo, ed inoltre la maggior precisione nell’indicazione dei beni collettivi, che riflettono un processo di crescente individualismo agrario ed i tentativi delle Vicinanze di rivendicare invece i propri diritti su terreni di possibile usurpo. Quale fosse l’estensione e l’importanza degli <agri> delle Vicinanze in questo periodo, lo possiamo dedurre soltanto da dati successivi, quelli dell’estimo degli anni 1772-78, la prima completa rilevazione fondiaria del territorio carrarese {ACC.Catasto, Estimo delle Vicinanze, 1772-78, 22-58}. Dopo un processo plurisecolare di vendite ed usurpazioni di beni vicinali, questi si estendono ancora per 2650 ettari, circa un terzo dell’intera superficie territoriale: scomparsa gran parte dei terreni collinari, rimangono prevalentemente terreni a macchia, boschi e castagneti nei villaggi montani e terreni <sterili> nelle zone marmifere. (nota 19, pagg.33-34)
“Il mantenimento dei caratteri esteriori della struttura vicinale viene in tal modo a nascondere un effettivo esercizio del potere in misura crescente nelle mani di poche famiglie. In questa situazione di precario equilibrio tra le forze sociali del vecchio mondo comunitario ed i nuovi ceti in formazione dei mercanti di marmo, degli affittuari di molino e frantoi, dei proprietari di terre a coltura specializzata, importanti elementi di novità, tendenti al superamento delle strutture tradizionali, sono introdotti dall’intervento dei marchesi Malaspina e, dalla metà del sec. XVI, dai principi Cybo Malaspina, feudatari imperiali di Massa e Carrara. Al di lá, infatti, di alcuni aspetti contraddittori di questo intervento, derivanti da una spregiudicata utilizzazione, nel campo della giurisdizione e delle regalie dei diritti connessi all’esistenza di un feudo imperiale, i Cybo Malaspina ci appaiono consapevoli della specifica realtà delle due zone di Massa e Carrara. La presenza di due borghi cittadini, con una crescente preminenza sui villaggi collinari e montani e lo sviluppo di attività commerciali, come quelle legate al marmo, mentre pongono un limite invalicabile all’imposizione di tributi o di prestazioni personali sul tipo di quelle richieste ai vassalli dai feudatari imperiali della vicina Lunigiana, offrono d’altro lato le migliori condizioni per il consolidarsi di un principato territoriale in cui il potere di una dinastia ereditaria sia fondato modernamente, abbandonando i legami di dipendenza feudale. […] Di questa esigenza sono espressione i nuovi Statuti di Carrara del 1574, non più contrattuali come gli statuti precedenti, ma diretta emanazione del potere del principe. Alberico non mette fine alle forme dell’autonomia vicinale, anzi riconosce le prerogative delle Vicinanze e tenta di porre un freno alla progressiva scomparsa dei beni collettivi, definendo compiutamente le modalità di concessione degli <agri>.Pur richiamandosi formalmente all’ antiquus Viciniarum stilus, gli Statuti introducono però alcuni aspetti amministrativi e politici nuovi, che vengono ad affermare un rapporto di rilevante dipendenza delle Vicinanze nei confronti del rappresentante del principe a Carrara, il Vicario, e ad accentuare il predominio del centro cittadino sui villaggi collinari e montani. In particolare, accanto ai tradizionali organismi vicinali e alle loro espressioni elettive, Consoli e Sindaci delle Vicinanze e Consiglieri rappresentati delle Vicinanze nel consiglio del Comune, viene posta la nuova figura dei <Protettori del Comune e del Popolo di Carrara>, giunta esecutiva con ampi poteri nell’ambito del nuovo Consiglio comunale e <Consiglio dei venti uomini>, con membri scelti tra gli abitanti del centro urbano e con l’elezione rigidamente sottoposta alla ratifica da parte del principe” (pagg.38-39)
“Tuttavia, già alla fine del sec. XVI, fenomeni di chiusura sociale politica, da tempo altrove riscontrabili, compaiono anche a Carrara, pur se limitati alla sola carica di protettore. Nelle Vicinanze questi processi sono molto più lenti e contrastati: soltanto nella seconda metà del sec. XVII, dopo che sono continuati i saccheggi dei beni collettivi, con gravi conseguenze sociali, e quando le incontrollate iniziative di privati hanno ormai determinato una condizione di completo disordine amministrativo, la struttura vicinale ritrova una sua parziale stabilità ed efficienza, su basi però profondamente diverse dalle precedenti, attorno ad una nuova figura non prevista dagli Statuti: i <Deputati delle Vicinanze> . I Deputati sono membri influenti delle Vicinanze e nei <libriccioli> d’estimo i loro nomi compaiono sempre che presentano il maggior carico imponibile, sono residenti nel centro urbano di Carrara o, talvolta, sono ricordati come <di Massa>.[…] Rappresentanti di una classe dirigente cittadina che viene accentuando, nel corso del sec. XVII, anche i propri interessi fondiari, Protettori e Deputati scoprono, pur nella specificità della struttura economica e dei rapporti sociali a Carrara, una propria vocazione aristocratica e daranno vita ad una oligarchia locale sempre più chiusa ed esclusiva. Meritano infine qualche attenzione i problemi relativi al regime di proprietà delle zone marmifere e delle cave, strettamente connessi alla più generale discussione che si è sviluppata, in modo spesso incerto e confuso, sulle origini e le caratteristiche della struttura vicinale. Le zone marmifere del territorio carrarese sono situate infatti, per la quasi totalità, in terreni incolti, in castagneti e boschi. Esse fanno quindi parte, almeno prima dell’emergere dei fenomeni di individualismo agrario, dei beni vicinali oppure di quelle zone montane accessibili a tutti e non rivendicate dalle Vicinanze, in quanto del tutto incoltivabile, che saranno descritte all’estimo soltanto nella seconda metà del sec.XVIII. Non sembra tuttavia che le Vicinanze abbiano avuto, di fatto o di diritto, la proprietà e l’uso esclusivo delle cave, anche in quelle aperte negli <agri> prima dell’editto di Maria Teresa Cybo Malaspina nel 1751” (pagg.40-41)
“Anche dopo gli statuti del 1574, che regolamentano la concessione dei beni vicinali, si conoscono soltanto concessioni di livelli agrari, mentre le cave che vengono aperte all’interno degli agri rimangono in completo godimento dello scopritore, senza imposizioni di canoni da parte della Vicinanza proprietaria. D’altro lato, le uniche concessioni di cave fatte dai principi Cybo Malaspina riguardano cave di loro proprietà allodiale nella località di Zampone. In realtà, dalla seconda metà del sec. XIV, con la scomparsa dei vescovi di Luni e dei diritti realistici sulle cave ad essi concessi da Federico I, nessuna istituzione sembra poter pretendere diritti di proprietà sulle cave in virtù di un principio assoluto. Di conseguenza, la situazione giuridica continua a presentarsi per lungo tempo ambigua ed incerta, mentre le cave finiscono per essere considerate, per consuetudine, come beni disponibili per la libera iniziativa: <Attestiamo e per verità facciamo fede, quattamente è stato et è vecchia consuetudine in Carrara e sua Valle osservata per lo spazio di trenta anni continui, e più, che quella persona che a sue spese trova et inizia una cava di marmi, la acquista e ne diventa Patrone assoluto…( Notaio Baldassarre Mansanti, 45, 23 gennaio 1588 e ancora: “le cave possono essere vendute a persone dello stesso Stato-ibid)
Anche nelle zone marmifere carraresi viene quindi ad affermarsi un principio di libertà di escavazione per tutti i membri della comunità, compresi i forestieri che abbiano preso stabile dimora nel centro cittadino o nei villaggi, non dissimile dal regime giuridico che si ritrova in altre zone minerarie situate in terre pubbliche o incoltivabile. I diritti dello scopritore si delineano con maggiore chiarezza con lo sviluppo delle attività marmifere quando i punti d’estrazione divengono meno instabili ed appaiono elementi di differenziazione tra le cave delle diverse località. Così nella seconda metà del sec. XVI una più precisa identità giuridica del possesso si manifesta attraverso la possibilità di utilizzare la cava come un bene privato che può essere venduto o acquistato, ed infine, nel 1655, le cave vengono iscritte per la prima volta all’estimo dei singoli possessori come beni del tutto simili alle altre proprietà private, svincolati da qualsiasi canone.(Anche nel caso di cave chiaramente aperte negli agri e non in castagneti o boschi alienati o usurpati da privati. Queste ultime sembrano del resto limitate di numero, poiché nell’estimo del 1655 la maggior parte delle cave è descritta utilizzando la seguente dizione: gli agri da tutte le parti. nota 45, pag. 42)
“Le Vicinanze che possiedono agri nelle zone marmifere non sembrano poter frapporre ostacoli, ne assumere posizioni di chiusura verso gli estranei, mentre l’intervento dei principi Cybo-Malaspina si limita alla composizione delle controversie tra mercanti cittadini ed abitanti dei villaggi e all’esazione di una tenue gabella d’esportazione, residuo della antica dogana dei marmi dei vescovi di Luni. Il possesso legato al solo punto d’estrazione e il limitato numero di cave aperte, se non impedisce un progressivo accaparramento da parte dei mercanti cittadini, evita tuttavia la concentrazione in poche mani delle zone marmifere’(pag.43)
L’abolizione delle Vicinanze e i nuovi assetti proprietari pubblici e privati
Per capire la situazione delle vicinanze di Carrara, quali ci si presentano agli inizi del sec. XIX, sarebbe necessario ricostruire il processo della lenta e graduale trasformazione che tali strutture originarie del territorio carrarese conoscono a partire dai primi secoli dell’età moderna; ricostruzione per altro tentata e in parte compiuta per l’istruzione dei principi Baciocchi quando inizia il tormentato cammino della loro abolizione.
A differenza di Massa e di altre organizzazioni consimili la struttura federativa di Carrara basata appunto sulle vicinanze si caratterizza per sue proprie peculiarità riassumibili nell’ampia autonomia amministrativa di cui godono le vicinanze, che, pur facendo capo a Carrara come centro cittadino, mantengono tuttavia fino agli inizi dell’800 una loro identità separata; associazioni di capofamiglia, proprietarie di beni indivisi e inalienabili conducono una loro vita autonoma e amministrano i loro beni in modo da garantire agli iscritti oltre la solvibilità dei debiti verso il centro cittadino un surplus da distribuire tra i singoli. Ogni vicinanza compila un proprio estimo in cui troviamo descritti a partire dal secolo XVI i beni divisi per categorie; oltre ai terreni incolti sui quali gli abitanti esercitano diritti consuetudinari di legnatico e di “far mortelle” per il letto del bestiame, le vicinanze sono anche proprietarie degli agri e di edifici comuni (frantoi; mulini e folli).
Già dal controllo delle redazioni successive degli estimi ricaviamo l’impressione di un progressivo scomparire dei beni incolti a vantaggio dei terreni coltivati e dati a livello ai particolari mentre la controversa questione degli agri e al centro della polemica che accompagna il tentativo di catastazione compiuta alla fine del sec. XVIII.
Gli edifici, altra fonte di entrate consistenti per le case delle vicinanze, gravate, dall’onere non indifferente della manutenzione delle strade, diventano anch’essi ben presto occasione di speculazione per gli appaltatori ai quali i vicini affidano la loro conduzione in cambio di un impegno da parte del costruttore ad assolvere i pesi contributivi verso il comune cittadino.
Ho accennato brevemente a questi fenomeni che richiederebbero ben altra trattazione perché proprio in queste trasformazioni della struttura economica delle vicinanze si collocano le premesse dei contrasti profondi che vengono alla luce sotto il Principato dei Baciocchi .( Giovanna Tanti, “La politica dei baciocchi e l’abolizione delle Vicinanze di Carrara” pagg.535-539) Occorre considerare che il precario equilibrio sul quale si fondava nel passato il mantenimento delle vicinanze era caratterizzato da una economia di autosussistenza stranamente collegata alla necessità di garantire un corrispondente equilibrio demografico e poco disponibile, per conseguenza, a rapporti di mercato più ampio di quello fra le stesse vicinanze. Se una sola di queste condizioni viene meno la giustificazione stessa dell’esistenza delle strutture vicinali perde terreno mentre l’irrompere del mercato, accompagnato dall’emergenza di nuovi soggetti sociali, squilibra l’originaria eguaglianza interna alle vicinanze. Dalla seconda metà del secolo XVI il processo di trasformazione delle vicinanze è tangibile nel numero dei forestieri che costituiscono ormai altrettante vicinanze accanto alle originarie (hanno infatti un loro estimo distinto che porta il nome di estimo dei forestieri della rispettiva vicinanza); non tutti hanno la stessa fortuna, mentre alcuni pagano col loro lavoro il surplus dell’economia vicinale, altri sanno inserirsi nel gioco degli appalti degli edifici sociali che, tenuti in conduzione per un numero di anni tendente a crescere, favoriscono l’accumularsi di ricchezze da reinvestire negli acquisti dei beni comuni e dell’industria marmifera. Lo stato a sua volta rivendicando i diritti acquisiti dal riconoscimento di Carrara a feudo imperiale, si avvale della sua autorità per ricavare il più possibile dalla concessione dell’uso delle acque e trova modo di inserirsi direttamente nella conduzione degli edifici, diventando comproprietario per un buon numero di questi; a ciò si accompagna un progressivo contrarsi della concessione dei beni comuni a vantaggio delle proprietà della Camera e dei Luoghi pii.
Agli inizi dell’800 alle vicinanze non rimane quasi niente delle proprietà indivise e classificate come beni indiretti, quasi 2/3 della popolazione risulta però iscritta alle vicinanze o in qualche modo interessata a queste mentre fra i nomi dei deputati delle vicinanze troviamo i maggiori possidenti di Carrara.
Segnali questi ultimi di un convergere di condizioni diverse quando non di interessi opposti intorno alla struttura vicinale che ormai ha ben poco a cui vedere con la “vicinia” rammentata negli statuti del 1574.
Viene a questo punto da chiedersi per quali motivi le vicinanze continuano a sussistere fino all’800, credo che, fatte salve le resistenze che qui come altrove si oppongono all’abbattimento dei diritti reali delle comunità, resistenze che non riesce a superare la politica razionalizzatrice del sec. XVIII e che ostacolano la applicazione del Codice Napoleone, a prescindere dicevo da queste considerazioni su un altro punto si gioca l’opportunità o meno di tenere in vita le vicinanze; nell’utilizzazione di queste strutture si sono infatti in gran parte costruite le fortune di quelle famiglie che si lanceranno prima o poi nell’avventura del marmo e ciò non solo nell’espropriazione strisciante, (le usurpazioni dei beni comuni sono un fatto noto e accertato nel sec. XVIII con la stessa istituzione di un magistrato che ne doveva curare la verifica) più significativo è semmai e specifico del territorio di Carrara l’ingerirsi di queste famiglie nello stesso funzionamento interno della struttura amministrativa vicinale, godendo i vantaggi che il permanere di alcuni diritti o privative procurano agli interessati; non a caso la questione delle privative degli edifici vicinali, è uno dei nodi centrali dell’intera vicenda proprio perché nelle possibilità di manovra che esse offrono si possono individuare i diversi partiti favorevoli o no alla conservazione delle vicinanze.