La lotta contro la chiusura del Cantiere navale di Marina di Carrara è stata una delle esperienze più positive del movimento sindacale della nostra provincia. Conservarne la memoria ha senso se si riflette anche sulle ragioni che hanno concorso a farla, diventare, da risposta immediata alla notizia, dei licenziamenti, una strategia vincente e un punto di riferimento per le altre realtà lavorative. Tale riflessione dovrebbe essere condotta dalle persone che hanno svolto un ruolo attivo non solo all’interno dell’azienda, ma in tutte le iniziative che si sono realizzate nella zona per la difesa di quei posti di lavoro, iniziative che hanno coinvolto, a più livelli, la popolazione e i suoi rappresentanti istituzionali. Queste note, pertanto, costituiscono solo un contributo parziale che non può esprimere in modo esauriente la grande mobilitazione che si è realizzata durante i tre mesi di assemblea permanente al Cantiere.
Premessa d’obbligo, prima di ogni altra considerazione, è un accenno alle caratteristiche soggettive delle maestranze che si distinguevano per vari aspetti nell’ambito delle fabbriche della zona; bisogna ricordare, inoltre, il significato che assumeva il Cantiere navale nella realtà economica carrarese.
Nella storia operaia della nostra provincia i lavoratori di quell’azienda hanno sempre goduto, e godono tuttora, di un grande prestigio, per l’alta qualificazione della, loro opera, riconosciuta in Italia e all’estero, e per il contributo al dibattito politico e sindacale che hanno saputo offrire; nel periodo in cui si è svolta la vicenda, la dialettica interna si presentava molto vivace, tutti i partiti democratici avevano una presenza organizzata fra i lavoratori e il movimento sindacale vi registrava alti livelli di partecipazione e di unità. D’altra. parte, essendo in quel periodo inattiva la Montedison, quella era la più importante fabbrica della zona di Carrara, sia sul piano economico, sia come punto di aggregazione sociale.
La grave situazione del Cantiere fu prospettata, ai rappresentanti sindacali nella riunione svoltasi il 24-11-1972 presso l’Associazione industriali di La Spezia, in cui i dirigenti del Cantiere per conto della AER-Macchi, società proprietaria dell’azienda, comunicarono l’intenzione di smantellare lo stabilimento; la conseguenza di questo atto sarebbe stata il licenziamento 440 operai interni e la perdita di lavoro per altrettanti operai dell’indotto. Nell’assemblea che fu immediatamente convocata con gli operai, alla quale parteciparono anche la maggior parte degli impiegati, non ci furono esitazioni ad intraprendere una forma di lotta decisa e di lungo respiro ma vi fu un’accesa discussione fra due proposte: quella dell’assemblea permanente, che veniva. dai responsabili sindacali e quella dell’occupazione del cantiere, sostenuta. da un gruppo di lavoratori. La proposta di assemblea permanente, più prudente ma più idonea a una vertenza che si prospettava lunga e complessa, ottenne una affermazione maggioritaria e si rivelò in seguito capace di aggregare tutte le forze sociali interessate alla risoluzione del problema. Le iniziative che i lavoratori in assemblea organizzarono per pubblicizzare le proprie ragioni e raccogliere consensi furono molte e incisive, però l’ostacolo principale da affrontare fu l’iniziale mancanza di interlocutori. Si avviò pertanto un confronto con tutte le forze presenti nel territorio, perché assumessero un ruolo attivo o di mediazione nella ricerca di una soluzione il cui ambito non poteva essere che quello governativo. In risposta si ottenne una disponibilità, positiva e generalizzata sia da parte delle istituzioni locali (il Comune di Carrara, guidato da Dalle Mura, la Provincia, presieduta da Balderi) che da parte delle forze politiche, soprattutto dai rappresentanti parlamentari, tra cui On. del Nero, che all’epoca, aveva la carica di sottosegretario al lavoro e dall’Onorevole Lombardi. Però le ipotesi di sbocco si presentavano deboli per varie ragioni:
– l’acquisizione dello stabilimento da parte della FIN Cantieri era ostacolata da problemi interni che l’ente stava affrontando;
– la GEPI, sorta in quel periodo per rilevare le aziende in crisi, aveva esperienze limitate al settore tessile e meccanico-tessile e mancava di manager esperti nel settore specifico.
-Si faceva, avanti infine la prospettiva di una compartecipazione tra la GEPI e un privato ma al momento questi non era stato individuato concretamente anche se si prospettava l’ipotesi di coinvolgere l’armatore Grimaldi che aveva una nave in costruzione a Carrara e una in allestimento nel bacino di La Spezia. Un contributo di fondamentale importanza al chiarimento del quadro di ordine tecnico che ci si presentava venne dalle analisi e dalle proposte del direttore del Cantiere navale, Cavallazzi, che si era trasferito presso l’Hotel Michelangelo, che giudicava inadeguati a qualsiasi tipo di rilancio dell’azienda gli impianti che avevano operato fino ad allora, (utilizzati per allestire navi di piccola stazza), e quindi riteneva necessario un progetto di ampliamento e ristrutturazione che permettesse la costruzione di navi da 25-30mila tonnellate di stazza, sì da affrontare la concorrenza dei cantieri spagnoli e dalmati.
Tale linea, del tutto nuova rispetto alla situazione che si era creata, fu considerata convincente dal sindacato locale e sostenuta dai lavoratori e su questa base si cercò un contatto con l’armatore Grimaldi, il quale pose la condizione, per iniziare la trattativa, di mettere in rada la nave che sostava nel Cantiere Ferrari di La Spezia ed utilizzata per fare gli allestimenti, condizione che non fu accettata dai lavoratori in lotta. D’altro canto, non si intravedeva nell’atteggiamento del governo, rappresentato dal ministro dell’industria Ferri, un’apertura tale da, prendere in considerazione un piano di ristrutturazione del cantiere: emergeva invece l’intenzione di un intervento minimo che tamponasse la, situazione, per mezzo del quale l’azienda, sarebbe stata, rilevata dalla GEPI, con l’INMA e con Grimaldi, dopo un taglio dell’organico del 50%. Si capiva, inoltre, che i dirigenti della GEPI non volevano assumersi in prima persona la responsabilità politica di un impegno più rilevante. Divenne chiaro, pertanto, che il principale interlocutore diventava il ministro dell’industria. e che occorreva convincere il ministro a costruire una soluzione credibile, idonea, a garantire, anche nel futuro, la stabilità, dell’occupazione. Fu in questo contesto che, dopo due mesi di assemblea permanente, si decise di portare la mobilitazione a Roma, con una combattiva manifestazione davanti la sede del Ministero dell’Industria: alle 8 del mattino di quello stesso giorno, i lavoratori del cantiere, giunti a Roma con 5 pullman, ‘circondavano’ con le loro bandiere rosse il palazzo ministeriale in Via Veneto.
Il comportamento che il ministro ebbe in quella giornata, confermò le sue intenzioni poco favorevoli; infatti solo nel tardo pomeriggio la delegazione dei lavoratori fu ricevuta. Tuttavia la presenza massiccia dei dimostranti e l’intervento dei parlamentari e dei rappresentanti nazionali della federazione unitaria dei metalmeccanici e delle Federazioni CGIL-CISL-UIL, ottennero che il ministro desse il suo assenso ad avviare la discussione con la GEPI sulla base, indicata dai lavoratori, del progetto di ampliamento e ristrutturazione del cantiere, da realizzare con una quota azionaria di un privato. Nel periodo successivo di trattativa si arrivò a formulare un piano occupazionale che lasciava, in forse gli impiegati ma salvaguardava il futuro dell’azienda. Il sindacato ritenne opportuno accettare questo risultato perché, dopo 90 giorni di assemblea permanente, era difficile fare ulteriori sforzi per proseguire la lotta. La vertenza si concluse dunque con l’assenso ministeriale all’accordo che le parti avevano raggiunto.
La prima considerazione che emerge da questa sintesi è sottolineare il ruolo fondamentale che giocarono la determinazione dei lavoratori e la loro volontà di arrivare a un risultato valido anche in prospettiva. La seconda valutazione da farsi è che, sia pure in un contesto altamente politicizzato, la resistenza dell’assemblea permanente sarebbe stata difficoltosa se l’intero tessuto sociale non avesse fatto propria la lotta per la difesa dell’occupazione. Degli stretti contatti con i partiti e con i rappresentanti parlamentari si è già detto. La Chiesa dimostrò un’attenzione continua e attiva, sottolineata dalla significativa presenza del Vescovo, mons. Carlo Baiardi, accanto agli operai in due momenti particolari: la Messa celebrata la notte di Natale e il matrimonio all’interno dello stabilimento di due lavoratori del cantiere. Da sottolineare, inoltre, che la mensa autogestita non avrebbe potuto funzionare senza il sostegno del Comune di Carrara, delle Cooperative e delle sottoscrizioni dei cittadini. I delegati dei consigli di fabbrica portarono la solidarietà di tutta la classe operaia della provincia, con la loro presenza nell’assemblea e con numerose e continue raccolte di fondi. Gli studenti dimostrarono un coinvolgimento consapevole nelle vivaci discussioni organizzate in molte scuole e nella presenza entusiasta alle iniziative realizzate dagli operai.
Questo vasto movimento si espresse in due grandi scioperi che bloccarono, per l’intera giornata, le fabbriche metalmeccaniche e (il secondo) tutte le realtà produttive della provincia, dalle cave al mare. La manifestazione, che da Marina di Carrara percorse il Viale XX Settembre fino a Carrara in Piazza Gramsci, dimostrò quanto la popolazione fosse partecipe della lotta e considerasse importante portarla a termine positivamente.
Fu sicuramente una testimonianza di grande unità, pur nella differenziazione di posizioni politiche e di punti di vista. Per queste ragioni si può considerare questa vertenza una delle più ricche e riuscite nella storia recente del sindacato confederale della nostra provincia.