di Antonio Bernieri
La crisi economica, che colpì l’Italia all’indomani della guerra ’15-’18, si manifestò a Carrara con una paralisi quasi totale dell’industria marmifera. Ora poiché l’economia della zona carrarese consisteva essenzialmente nell’escavazione, lavorazione e commercio del marmo, mancando una pur minima produzione agricola o industriale, é comprensibile lo stato di estremo disagio in cui venne a trovarsi la popolazione quando l’esportazione del marmo dal comune, che nel quinquennio precedente alla guerra aveva avuto una media di 236.000 tonnellate annue, si contrasse nel 1917 a 69.000 tonn. e nel 1918 a 44.000 tonnellate.
Dall’inizio del secolo Carrara aveva conosciuto un periodo di costante incremento dell’attività industriale e commerciale, un periodo quindi, se non di prosperità generalizzata, attesa la enorme sperequazione tra redditi del lavoro e profitti, perlomeno di relativo benessere. La disoccupazione era contenuta in limiti sopportabili, il denaro circolava ed i bisogni elementari trovavano la necessaria soddisfazione. Così i sacrifici della popolazione parvero ancora più sensibili e non soltanto negli anni della guerra, ma soprattutto in quelli della ripresa: cioè fino al 1922-1923, quando l’incremento della produzione raggiunse e superò nuovamente le 200.000 tonnellate annue.
Fu appunto nel periodo che va dall’inizio del secolo alla vigilia della guerra mondiale che la classe operaia carrarese abbandonato il tradizionale e inconcludente ribellismo, aveva condotto le sue grandi lotte rivendicative. Lotte che non solamente avevano giovato a migliorare il tenore di vita e le condizioni di lavoro delle varie categorie e della popolazione nel suo complesso, ma avevano pure stimolato l’industria stessa a perfezionare i sistemi di escavazione e lavorazione del marmo. Dalle 10 ore di lavoro del 1901, i cavatori erano riusciti a scendere nel 1911 alle 6 ore e 48 minuti. Egualmente gli operai delle segherie e dei laboratori, che all’inizio del secolo avevano giornate di 12 ore e di 10 ore rispettivamente, conquistarono le 8 ore lavorative nel 1913 dopo 45 giorni di lotte. In quegli anni anche gli operai di altre categorie ottennero, sempre a prezzo di lotte e sacrifici notevoli, condizioni salariali più soddisfacenti, come i dipendenti della Ferrovia Marmifera e i ripassatori.
Nel 1912 fu istituita la Cassa Pensioni per gli operai del marmo e gl’industriali furono costretti ad accettare un aumento della tassa sulla esportazione del marmo da 5 lire a 6,50 alla tonnellata.
Alle difficoltà di carattere generale che si opponevano alla pronta ripresa dell’industria marmifera dopo il ristagno degli anni della guerra – come la debolezza dei mercati di esportazione, la scarsità dei mezzi di trasporto in mare e in terra di materie prime -, si aggiungevano difficoltà di ordine locale. Particolarmente sentita era la penuria di materiali da lavoro che gl’industriali avevano ceduto durante il conflitto e che ora era estremamente difficile procurarsi. Già agli inizi del 1919 in un editoriale dal titolo «Ancora dei nostri problemi industriali», la Sveglia Repubblicana, organo della Federazione Provinciale del Partito Repubblicano Italiano, muoveva un aspro rimprovero agli industriali che non comprendevano la necessità di produrre ed esportare di più. Non é possibile affrontare il nuovo periodo storico del dopoguerra con la vecchia mentalità e con i nuovi sistemi, scriveva il giornale repubblicano: occorre una nuova legge sulle cave per evitare che troppe di esse restino inattive. D’altronde é vano attendere dagl’industriali carraresi la soluzione dei problemi legislativi, tecnici e finanziari che i tempi nuovi impongono, visto che tutto ciò che sanno fare é di richiedere i materiali da lavoro alienati negli anni di guerra e forniture di materie prime (1) .
Il giudizio del giornale repubblicano era sostanzialmente giusto. La guerra pur con il suo retaggio di sacrifici, distruzioni, lutti, aveva modificato la coscienza delle masse popolari, aveva aperto prospettive di rinnovamento sociale, economico e tecnico, più radicali per le correnti politiche avanzate, più moderate per quelle espresse dalla piccola e media borghesia produttrice, e tuttavia tali da imporre come indispensabili e indifferibili, misure di trasformazione delle tradizionali strutture economiche sociali e, in una certa misura, degli stessi rapporti di proprietà e di produzione.
Repubblicani, socialisti e anarchici, divisi e acerrimi nemici gli uni degli altri sul terreno politico, ma uniti nella Camera del Lavoro diretta dal 1911 dall’anarchico sindacalista Alberto Meschi, nella fervida atmosfera della vita politico-sociale dell’immediato dopoguerra, miravano appunto ad obbiettivi che, andando oltre a quello del conseguimento della necessaria normalità economica, comportavano trasformazioni radicali della tradizionale struttura dell’economia marmifera. Sotto la scorza di prese di posizione contingenti, intrise di reciproca aspra polemica, che ripetono quella della tematica politica nazionale, la sostanza delle rivendicazioni essenziali sul piano locale non era poi molto diversa per gli operai socialisti, repubblicani ed anarchici.
Di fronte a loro stava una borghesia industriale potente quanto retriva, incapace di adeguarsi ai tempi nuovi, impaurita dalle prospettive rivoluzionarie che la guerra sembrava aver aperto al proletariato. Anche la struttura dell’industria era invecchiata: le maggiori aziende marmifere erano veri e propri feudi dinastici, le cosiddette baronie del marmo. Patrimoni commerciali e personali si identificavano, l’organizzazione del mercato era concepita come un fenomeno economico spontaneo, la struttura finanziaria inesistente. Quando dieci anni dopo le baronie del marmo crollarono ignominiosamente, trascinando nella rovina e nella fame l’intera popolazione carrarese, destò emozione il fatto che quelle potenti dinastie che da un secolo si tramandavano di padre in figlio il potere economico della città, che quei nomi di famiglie che erano divenuti quasi mitici, avessero potuto precipitare.
Sembrò l’affermarsi di una fatale legge di natura:
Se tu riguardi Luni ed Ubisaglia
come son ite e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà cosa nova né forte
poscia che le città di termine hanno…
Invece non di una legge di natura si trattava, ché la causa del crollo era insita nella decrepitezza dell’organizzazione aziendale, nella sua incapacità organica di opporsi validamente alla pressione che il capitale finanziario e la banca esercitavano sulle vecchie aziende, nella disastrosa congiuntura della politica economica e finanziaria che il fascismo aveva suscitato in Italia.
Gli anni 1919 e 1920 furono dunque anni di faticosa ripresa. Di fascismo non v’era traccia o quasi, nella vita politica carrarese. Durante il 1920 qualche studente universitario s’iscrisse al fascio di combattimento di Pisa. Ma soltanto una eco lontana delle vicende del nuovo movimento politico giunse a Carrara. E tuttavia, seppure nato in ritardo, il fascismo carrarese non fu una merce importata di fuori, ma nacque e si sviluppò con caratteristiche proprie e originali.
Per comprenderne la natura occorre brevemente analizzare lo sviluppo della vita politica locale, la politica dei partiti popolari, i loro obbiettivi di fondo e l’incapacità a risolverli. Si ebbe a Carrara, tra il 1919 e il 1921, una pressione rivoluzionaria, il cui arco si sviluppò parallelamente all’ondata rivoluzionaria che investì il paese in quegli anni. Quando questa ondata rivoluzione si spense, anche a Carrara la spinta proletaria e popolare si era esaurita senza riuscire a conseguire alcuno dei suoi obiettivi. Sicché l’astiosa animosità con la quale socialisti, repubblicani ed anarchici si erano combattuti (e la quotidiana rissa politica fu non ultima causa della loro disfatta di fronte al fascismo locale) si trasformò in altrettanto astiosa reciproca recriminazione, quando ormai apparve chiaramente che la storia aveva voltato pagina e alle speranze di un mondo più giusto e più libero si era sostituita la tragica realtà del fascismo.
Il Partito Repubblicano, che aveva nelle sue fila non pochi lavoratori, era il partito storico della piccola e media borghesia democratica e radicale. Interventista nel 1915 (il deputato di Carrara Eugenio Chiesa, che sarà poi sottosegretario dell’Aeronautica, il 4 dicembre 1914, aveva dichiarato alla Camera: – Se il governo manterrà la neutralità dell’Italia nel presente conflitto europeo, noi saremo recisamente contro la monarchia! -), il partito repubblicano mal dissimulava nel 1919 la sua delusione per i risultati non soltanto politici, ma anche sociali della guerra «rivoluzionaria». Socialisti e anarchici che l’avevano apertamente avversata, ora si rifiutavano di accogliere, nelle commissioni esecutive della camera del lavoro, gl’interventisti di ieri. I repubblicani per recuperare il terreno perduto operarono in due direzioni: propagandavano la parola d’ordine della costituente accentuando la loro opposizione al governo Nitti, da un lato; dall’altro presero alcune iniziative amministrative, senza dubbio notevoli. Era sindaco di Carrara dall’aprile del 1915 l’avvocato Edgardo Lami Starnuti (2), che mantenne la carica fino che i fascisti non lo costrinsero a dimettersi con tutta l’amministrazione il 29 dicembre del 1921. Nel maggio del 1919 l’amministrazione Starnuti abolì la cinta dazia di Carrara e istituì il dazio aperto con notevole sollievo per il commercio e il consumo.
Il 10 giugno dello stesso anno il Comune firmò la convenzione col Ministero dei lavori pubblici per la costituzione dell’Ente Autonomo per la costruzione del porto di Marina di Carrara, le cui opere per l’ammontare di L. 8.800.000 sarebbero state sostenute dallo Stato per l’importo di lire 6.160.000. Iniziativa tanto più importante perché tendeva a dare un’appropriata soluzione al problema dell’esportazione via mare del marmo, nel momento in cui più grave si faceva sentire la crisi dei trasporti.
Ma l’amministrazione Starnuti ritenne anche, nel corso del 1920, di concordare con l’Associazione degl’industriali, due aumenti della tassa di esportazione del marmo. Con la convenzione del 28 febbraio 1920 la tariffa dei marmi greggi fu portata da 6,50 a 15 lire per tonnellata e con la convenzione del 30 dicembre, avendo rinunciato gl’industriali a provvedere con apposito consorzio alla manutenzione delle strade carrione, la tariffa fu portata a lire 50.
Tale cospicuo aumento non solo era compensativo dell’onere che il Comune doveva sostenere per la manutenzione delle strade industriali, ma anche della svalutazione della moneta.
Le convenzioni concordatarie con gl’industriali per l’aumento della tassa sull’esportazione dei marmi, poterono sembrare allora, come oggi, atti di saggia amministrazione. In realtà esse, nel momento in cui furono attuate, costituirono una vittoria politica della classe industriale in quanto sancivano lo status quo del possesso delle cave comunali da parte degl’industriali e svuotavano di ogni spinta progressiva la politica operaia di riforma strutturale delle concessioni marmifere che pure faceva parte anche del programma repubblicano, come appare dalla citazione già fatta della Sveglia Repubblicana , e come dimostrerà la proposta di legge Chiesa sulla riforma mineraria.
Coesistevano evidentemente due anime nel partito repubblicano: l’una che risolveva gl’impegni di riforma strutturale del sistema dei rapporti della proprietà marmifera, annullandoli in un’attività amministrativa tecnicamente giusta ma politicamente insufficiente e contraddittoria; l’altra che rifletteva le aspirazioni dei lavoratori e le obiettive esigenze della situazione sociale e che, per incapacità di concretarsi, si traduceva in pura agitazione e, peggio, in demagogia.
Non che i socialisti avessero, tra il ’19 e il ’20, idee molto chiare e meno contraddittorie. Nel partito socialista a Carrara prevaleva in quegli anni la tendenza massimalista, espressione di una base socialmente e ideologicamente affine all’artigianato, come sono i lavoratori degli studi e dei lavoratori del marmo, e di gruppi di commercianti minuti,di giovani professionisti cui era d’obbligo l’atteggiamento barricadiero. L’azione dei socialisti si svolse in due sensi: in quello della propaganda rivoluzionaria e in quello della lotta ad oltranza contro i repubblicani e il Comune.
L’editoriale «Sciopero rivoluzionario» de La Battaglia del 6 luglio 1919, proclamava:
Siamo per la terza internazionale contro la seconda dei rinnegati, quella dei Renaudel, Vandervelde, dei Mac Donald: ci fa schifo! Siamo per lo sciopero generale rivoluzionario ad oltranza, per la salvezza della rivoluzione proletaria iniziata dai «Soviet» russi e ungheresi (3).
Pochi giorni dopo, il 20 e 21 luglio, vi fu lo sciopero generale di solidarietà verso la giovane repubblica dei Soviet, proclamato dai socialisti con l’adesione della Camera del Lavoro. Parlarono Francesco Betti, Aladino Bibolotti e Alberto Meschi. Il giornale dei repubblicani, che pure non lesinava spazio ad ogni numero per attaccare la rivoluzione russa e i suoi capi, di fronte all’adesione spontanea degli operai repubblicani alla manifestazione, non trovava di meglio di auspicare che «lo sciopero non sarà stato inutile se indurrà i lavoratori a meditare […] sullo schifo di chi predica un’assurda rivoluzione».
La lotta tra repubblicani e socialisti aveva assunto i toni di una rissa d’invettive personali e collettive e non ebbe mai al centro i reali problemi locali, dalla cui soluzione dipendeva il progresso del moto sociale popolare ed un accrescersi del potere politico ed economico delle classi lavoratrici.
La Camera del Lavoro rimase l’unico organo unitario dei lavoratori: già nell’ordine del giorno votato al primo congresso camerale del dopoguerra, il 29 giugno 1919, si dice:
Il Congresso della Camera del Lavoro di Carrara […] riconferma l’indirizzo camerale di adesione all’U.S.I., considerando che questo organismo intende mantenersi estraneo alle competizioni dei partiti politici, ma intende seguire una linea di condotta recisamente di classe e internazionalista […].
E’ questo spirito unitario che fa la forza del proletariato del marmo e gli consente di ottenere dei buoni successi economici. Nel luglio hanno inizio le agitazioni operaie: i cavatori chiedono un aumento del salario del 5% e la giornata di 6 ore; i ferrovieri della Ferrovia Marmifera un aumento giornaliero di 5 lire. Lo sciopero iniziato il 1° ottobre porta a trattative globali con gl’industriali, che fruttano un concordato per la sistemazione dei contratti di lavoro di tutte le categorie da valere fino al 30 aprile 1922.
Fino all’autunno del 1919 l’atteggiamento della borghesia industriale sembra puramente difensivo. Invero, le agitazioni politiche e economiche che ebbero luogo a Carrara in quell’anno e nel successivo non erano né minacciose né violente né meno motivate dalle grandi lotte rivendicative che caratterizzarono gli anni tra il 1911 e il 1914. Certo la situazione generale del paese era diversa, la rivoluzione russa incuteva un terrore panico e la borghesia industriale e in genere i ceti elevati della popolazione avevano l’animo ancora esaltato dell’avventura bellica e il sentimento della vittoria «tradita» alla conferenza di Parigi.
Ma a Carrara non c’erano tradizioni nazionalistiche e l’interventismo dei repubblicani sembrava più un’appendice dello spirito risorgimentale e garibaldino che non l’affermazione di quella volontà di potenza provincialmente nazionalistica e imperialistica che caratterizzò l’interventismo delle grandi città italiane e lo spirito delle «radiose giornate» del maggio 1915.
Anche questo fu uno dei motivi del ritardo del sorgere del fascismo a Carrara. La borghesia industriale e le correnti liberal-costituzionali cominciano a scuotersi dopo le elezioni del novembre 1919, in cui risultano eletti per i socialisti l’avv. Francesco Betti di Massa e l’avv. Luigi Salvatori di Pietrasanta, ed é riconfermato l’On.. Eugenio Chiesa per i repubblicani. Il montare della marea socialista nell’estate del 1919 e l’affermazione elettorale di novembre dei socialisti e dei popolari – peraltro quella di questi ultimi di scarsa importanza nella regione del marmo – mentre spinge i socialisti ancora più avanti nella via della pura declamazione rivoluzionaria, induce i repubblicani ad approfondire la contraddizione del loro atteggiamento. La pretesa di Nitti di volere l’ordine a tutti i costi e la maggiore produttività del lavoro é cosa assurda, affermano nel loro giornale. E’ ridicolo chiedere all’operaio di lavorare di più quando il suo sacrificio va a vantaggio di chi non lavora e consuma allegramente. Bolscevismo, dunque? No, ma capitale e lavoro nelle stesse mani. Intanto la vicenda di Fiume occupa sempre più spazio su La Sveglia Repubblicana, prima timidamente, poi con crescente enfasi nazionalista. L’esecrato Nitti diventa «Cagoia» anche per i repubblicani. In fondo, scrive la Sveglia (n. 40, 4 ottobre 1919), Fiume non é un fenomeno di militarismo come dicono i socialisti: resa Fiume all’Italia, quei bravi giovinotti tornerebbero volentieri a casa. Non passerà molto tempo che quel bravo giovinetto di Renato Ricci tornerà da Fiume a Carrara non precisamente a riposarsi delle leggendarie imprese della città redenta. La Sveglia addolcisce sempre più il suo trillo anticapitalista. Perché gl’industriali sono così testardi? perché non capiscono che nelle agitazioni delle masse c’é un motivo psicologico che giustifica le incomposte violenze? Il borghese non deve, « barcollando tra Nitti e la guardia regia », correre a gettare ogni sua fatica, ogni sua opera nel baratro del bolscevismo. Non é più conveniente dare le terre in possesso ai contadini e «addestrare gli operai alla gestione costituzionale delle fabbriche», secondo la espressione di Turati, aiutarli a divenire liberi produttori? Dove la melopea mazziniana si sposa alle squillanti frasi turatiane per mascherare, ma invano, il vuoto assoluto.
Ma il «borghese» non ascolta la Sveglia Repubblicana : la sveglia che lo scuote e lo desta sono le elezioni del novembre. L’Indipendente, giolittiano e nittiano, ma che non nasconde il suo debole per Tittoni, nell’editoriale «Dura lezione», lamenta la cecità della borghesia e dei partiti dell’ordine incapaci a far fronte ai rivoluzionari che agiscono contro l’interesse del paese. Che fare? si chiede. Occorre riorganizzare tutte le forze costituzionali e stringere le file(4). No, L’Indipendente non é un giornale fascista, anzi i pochi accenni al fascismo che compaiono sulle sue colonne sono ancora di avversione. Ma si sa, quando si stringono le file si ottiene fatalmente un fascio: ed é quello che succederà ai costituzionali tanto a Massa che a Carrara.
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Durante la prima metà del 1920 la classe operaia carrarese prese coscienza che la trasformazione della struttura sociale della proprietà marmifera era ormai questione storicamente matura. Il problema era tutt’altro che nuovo: tuttavia, dopo un ventennio di lotte di natura essenzialmente economica, pareva giunto il momento in cui il proletariato potesse socializzare i mezzi di produzione. Senonché per i cavatori di marmo, impadronirsi delle cave significava qualcosa di diverso dall’affermazione pratica di un principio rivoluzionario maturatosi nel corso di sviluppo del sistema economico capitalistico, come, per esempio, sarebbe stata l’occupazione della fabbrica da parte degli operai metalmeccanici. Il rapporto di proprietà degli agri marmiferi carraresi non é così ben definito come quello che si ha in altri settori industriali.
L’industriale é proprietario delle attrezzature, ma non degli agri da cui si estrae il minerale: gli agri sono, eccettuato una piccola parte, di proprietà comunale, cioè collettiva. Anzi, fino ad un secolo prima, appartenevano in forma esclusiva alle «vicinanze» o corporazioni dei cavatori. Per comprendere il fondo delle lotte sociali e politiche a Carrara, occorre appunto rifarsi al regime di proprietà degli agri marmiferi. Questi furono riuniti al patrimonio del Comune di Carrara col decreto del 7 luglio 1812 del principe Baciocchi, che aboliva le «vicinanze», enti territoriali di diritto pubblico corrispondenti ai villaggi a monte di Carrara, abitati in prevalenza da cavatori. I «vicini» avevano da oltre sei secoli in proprietà comune gli agri marmiferi, i molini, i frantoi ed altri edifici. L’espropriazione dei cavatori fu il risultato di un’acuta lotta tra vicinanze e comune durate circa mezzo secolo.
Gli agri marmiferi, resi liberi da ogni vincolo corporativo con l’abolizione delle vicinanze, divennero oggetto di concessione livellaria perpetua a chiunque ne facesse richiesta. La privata iniziativa trasformò in pochi decenni l’antica arte dell’escavazione del marmo in moderna industria.
Nel medesimo tempo i cavatori, già proprietari delle cave, furono trasformati in operai salariati e costretti ad uno dei lavori più faticosi, massacranti e pericolosi.
Il sistema delle concessioni degli agri venne regolamentato con la Notificazione (o Regolamento) di Francesco V d’Este del 14 luglio 1846, che é ancor oggi, nel 1964, in vigore: la cosiddetta legge estense delle cave. Il regolamento era concepito al fine di promuovere l’iniziativa privata in un’attività industriale ancora agli inizi e tutta da sviluppare («una incipiente industria», ma al tempo stesso poneva le cautele necessarie alla salvaguardia dei diritti della proprietà comunale).
La legge estense non poteva prevedere né impedì che in poco tempo la corsa all’accaparramento degli agri desse luogo a sperequazioni considerevoli del possesso, che si concentrò, spesso con la connivenza delle amministrazioni comunali, nelle mani di poche famiglie: le dinastie dei baroni del marmo. Poiché la concessione é perpetua, il possesso equivale alla proprietà: così le cave migliori venivano lavorate direttamente dal concessionario, le altre o lasciate inattive per sostenere i prezzi o date in affitto a coltivatori minori, sì da dar luogo, coll’imposizione del canone tradizionale di affitto di un settimo (14%) della produzione, ad una vera e propria rendita industriale in contrasto con lo spirito del Regolamento. Nel primo dopoguerra si calcola che non meno del 50% degli agri fosse affittato ai coltivatori minori producendo una rendita di parecchi milioni, mentre i canoni pagati al Comune per le concessioni non superavano complessivamente le due o tre mila lire annue! Considerata la mole delle usurpazioni e l’entità dello sfruttamento a danno dei lavoratori e della popolazione, si comprende perché tutta la storia politica e sociale della città di Carrara si sia sempre imperniata in sostanza sulla lotta per il possesso degli agri marmiferi, ed abbia provocato a volte episodi di estrema violenza come nel gennaio del 1894.
Questa lotta si svolgeva costantemente secondo tre linee principali: quella degl’industriali, che cercavano di trasformare in proprietà privata oltre che nella sostanza, anche nella forma legale, il possesso degli agri; quella dei cavatori, che nelle rivendicazioni di migliori condizioni di lavoro sottintendevano sempre la rivendicazione fondamentale dell’antica proprietà delle cave; quella del ceto medio imprenditoriale e commerciale, che si limitava a richiedere, contro ogni abuso e usurpazione da parte dei «baroni», l’applicazione del Regolamento del 1846.
Le Amministrazioni comunali non furono mai in grado, o per loro congenita debolezza o, peggio, perché conniventi con le «baronie», di opporsi validamente né all’accaparramento degli agri, né alle continue usurpazioni, né alla costante violazione delle norme cautelative del pubblico interesse.
Questa lunga parentesi esplicativa era indispensabile a chiarire il senso preciso di ciò che avvenne tra il 1920 e il 1921 e la reale natura della reazione fascista. Sembrava infatti alle masse popolari e alla classe operaia che la crisi politico-sociale del dopoguerra avesse portato a maturazione una soluzione rivoluzionaria della questione della proprietà marmifera. Si fece portavoce di questa diffusa coscienza l’On.. Eugenio Chiesa, che il 22 marzo del 1920 presentò alla Camera una proposta di legge mineraria «per la espropriazione delle cave, miniere e terreni che hanno sorgenti di acqua minerali ».
Da anni si discuteva alla Camera sulla necessità di una unificazione legislativa della materia mineraria. L’On.. Chiesa prima e l’on. Umberto Bianchi, socialista, il 1° luglio 1920 introdussero nella discussione il principio della nazionalizzazione delle cave e miniere non appartenenti ai Comuni o ad altri enti autarchici e del loro affidamento a cooperative di lavoratori.
Appariva evidentissimo come la proposta Chiesa, nel suo schematismo e semplicismo, era ispirata non tanto alle esigenze della complessa realtà mineraria italiana, quanto al desiderio di proporre una soluzione radicale in armonia coi tempi e con le aspirazioni del proletariato carrarese.
L’articolo 13 della proposta di legge Chiesa risolveva drasticamente la questione dei «settimi». Le cooperative, coltivatrici dirette, avrebbero pagato al Comune proprietario delle cave un canone enfiteutico annuo pari ad un settimo del valore del prodotto. I cavatori, espropriati dalle cave un secolo prima, avrebbero a loro volta espropriato gli espropriatori.
Ma, come abbiamo visto, l’amministrazione Starnuti, che pure era dello stesso partito dell’On.. Chiesa, preferì seguire una politica diversa, raggiungendo con gli industriali gli accordi relativi all’aumento della tassa di esportazione del marmo dal Comune. Come mai questa contraddizione? Era pura demagogia la presentazione della legge Chiesa o il sindaco Starnuti aveva, con la stipulazione degli accordi, rinnegato la politica del partito repubblicano e tradito le aspirazioni dei lavoratori?
I repubblicani non sostennero la proposta Chiesa e l’agitazione per le cave ai cavatori fu assunta dai socialisti e dalla Camera del Lavoro durante il 1921, quando cioè, come vedremo, la reazione industriale e fascista sorse improvvisa e violenta e, nello spazio di pochi mesi, distrusse ogni resistenza operaia.
E’ qui che si deve cercare l’elemento che determinò il sorgere del fascismo e al tempo stesso la sua reale natura di difesa violenta del possesso degli agri marmiferi da parte dei grandi industriali. Tutti gli altri motivi che concorsero al sorgere del fascismo, soggettivi ed oggettivi, e nella misura in cui ci furono realmente, furono assolutamente subordinati e secondari rispetto a quello della difesa della proprietà marmifera. Le elezioni del 1919 avevano dato l’idea precisa del montare della marea operaia: la possibilità che il possesso delle cave tornasse al Comune e che questo le desse in gestione agli operai, folgorò la coscienza della borghesia industriale. I fatti del ’94, ancor vivi nel ricordo, garantivano della serietà e gravità della determinazione proletaria: difendersi non era più sufficiente, bisognava attaccare, con violenza e distruggere il nemico. Questa fu l’origine del fascismo.
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Il fascio di Carrara si costituì al ritorno di Renato Ricci da Fiume; la leggenda fascista vuole che fosse formato di soli 17 giovani che, come Davide contro Golia, dettero l’assalto alle orde bolsceviche e anarchiche e le sgominarono. La verità é un pò diversa dalla leggenda: le file fasciste s’ingrossarono immediatamente, per i motivi che vedremo, e gli squadristi carraresi, come scrisse nel 1922 il prof. Adolfo Angeli, futuro Sindaco fascista e presidente dell’Accademia di Belle Arti:
furono validamente e fraternamente coadiuvati dai vicini fascisti di Massa, della Versilia, di Pisa, di Firenze, della Spezia ma non per questo fu meno aspro il loro compito. (5)
Se anche fossero stati una minoranza rispetto agli avversari, ciò che già nella seconda metà del ’21 é assai dubbio, i fascisti introdussero nella competizione politica la violenza organizzata e la tecnica del concentramento delle forze che permise loro di essere costantemente una maggioranza armata, contro una minoranza, se non sempre disarmata, impreparata e disorganizzata.
Comunque, come fu possibile che in un anno i fascisti riuscissero a rovesciare i rapporti di forza e ad impadronirsi del potere? Agl’inizi del 1922 le organizzazioni sindacali, le leghe, erano quasi distrutte, l’amministrazione Starnuti rovesciata, i partiti politici o dispersi, come il comunista e socialista, o resi impotenti come il repubblicano.
Certamente la violenza ebbe una funzione determinante, ma la vittoria fascista fu prima di tutto una vittoria politica. Non tanto i partiti popolari furono incapaci di difendersi dall’assalto armato delle squadre d’azione, quanto piuttosto furono incapaci di esprimere una politica che rappresentasse un’alternativa rivoluzionaria o democratica concreta. Evidentemente, a questo punto, il discorso andrebbe allargato, e noi, invece, dobbiamo occuparci soltanto di ciò che avvenne a Carrara.
Gli elementi che, principalmente, permisero il rapido involversi della situazione in senso reazionario sono presto enunciati: a) la estrema debolezza organizzativa dei partiti storici, repubblicano, socialista e anarchico, e il loro carattere di movimenti di opinione che si reggevano più su tradizioni e sentimenti che non su una diffusa consapevolezza della prospettiva reale e della direzione del moto sociale; b) l’assenza di un movimento politico cattolico, sicché i pochissimi cattolici militanti tendevano a confluire nell’alveo del partito liberale, rafforzando il fronte della conservazione borghese; c) l’impossibilità soggettiva del partito comunista d’Italia a sostituirsi nella direzione delle masse lavoratrici ai due partiti tradizionali, il socialista e l’anarchico; d) l’atteggiamento di ostentato agnosticismo della Camera del Lavoro verso le vicende politiche locali e il gravissimo limite economicistico della sua azione.
In che cosa consistette la vittoria politica dei fascisti? Consistette nell’essere riuscito a costituire un blocco omogeneo fra grande e piccola borghesia e a mobilitarlo contro i lavoratori. Lo strumento col quale fu realizzato il blocco conservatore della borghesia fu il partito liberale. Fino all’inizio dell’estate del 1921 erano ancora iscritti al partito liberale, alcune avendovi anche cariche direttive, Renato Ricci e tutti coloro che furono i principali fascisti e squadristi della città: Rizieri Lombardini, che venne poi ucciso a Sarzana, i fratelli Picciati che furono uccisi a Bergiola. Il partito liberale da un lato condivideva le tesi generali dei fascisti sulla guerra vittoriosa e la pace tradita, sul pericolo bolscevico e sull’incapacità dello Stato a restaurare l’ordine, dall’altro offriva ai fascisti i concreti motivi locali per la difesa degli interessi costituiti: agitazione per una politica doganale a sostegno dell’esportazione marmifera, riduzione dei salari, rottura delle agitazioni economiche, distruzione totale e definitiva di ogni rivendicazione sul possesso delle cave.
La violenza fascista, appoggiata sul piano morale e politico del partito liberale, si esercitò fin dai primi giorni del ’21 contro le leghe dei cavatori, i circoli anarchici e le sezioni socialiste e comuniste.
Alla violenza materiale dei fascisti si contrapposero la violenza verbale dei socialisti, che continuarono a manifestare propositi rivoluzionari, e la resistenza coraggiosa degli anarchici, che fu condotta però in forma isolata e individuale, mentre i comunisti, costituenti un esiguo gruppo guidato da Aladino Bibolotti e da Luigi Salvatori, non furono in grado di reagire efficacemente e dovevano essere travolti nel luglio, dopo i fatti di Sarzana.
I repubblicani ebbero oscillazioni paurose: l’aspra quotidiana polemica contro i socialisti impediva loro di capire che i fascisti erano i veri nemici dei lavoratori e della piccola borghesia. Alla demagogia patriottica dei fascisti opponevano il loro interventismo e il contributo di sangue dato dai repubblicani in guerra. Fino all’agosto del 1921 mettevano in guardia i fascisti dal non andare troppo avanti sulla via della violenza per evitare possibili gravi reazioni popolari. Oscillando tra i supremi valori della patria e la demagogia populista, il partito repubblicano finiva per screditarsi da tutte le parti nell’illusione di porsi come mediatore e piacere tra socialisti e fascisti.
Il «martirologio» ufficiale fascista contempla undici morti, un mutilato e trentaquattro feriti. Ma chi erano e in quali luoghi furono essi colpiti? E quanti furono gli uccisi dai fascisti? Quando questi scatenarono l’offensiva erano già avvenuti episodi di violenza senza tuttavia che si giungesse all’omicidio. Il primo ucciso fu il repubblicano Battista Fabbiani di Bergiola; subito dopo, l’8 gennaio 1921, nello stesso paese furono uccisi i fratelli Renato ed Eugenio Picciati studenti e l’operaio Giulio Morelli, tutte e tre fascisti; il 20 dello stesso mese a Torano fu ucciso il socialista Gino Giromini. Era cominciato l’anno di sangue.
Il fascismo – scrive in questi frangenti l’organo del partito liberale – é un movimento di rivolta dell’Italia vittorioso che volle e fece la guerra contro chi quella guerra vigliaccamente insidiò. Fenomeno doloroso ma necessario(6).
Ci si avvicina ora alle nuove elezioni politiche e il fervore elettorale acuisce i dissensi tra i partiti popolari: repubblicani e socialisti sembrano non avere altro fine se non quello di screditarsi a vicenda. I repubblicani tendono allo stesso risultato per il quale il governo ha sciolto la Camera e indetto le elezioni: sconfiggere i socialisti. Ricci, Gattini e altri fascisti sono consiglieri dell’Associazione democratica liberale carrarese, i cui candidati sono i «liberali democratici» Costanzo Ciano, Giulio Donegani e l’avvocato Camillo Micheli. I repubblicani puntano sull’On.. Chiesa e sul sindaco Starnuti, i comunisti sull’On.. Salvatori, essendo morto nel 1920 Francesco Betti.
La polemica tra repubblicani e socialisti, per quanto aspra, non condurrebbe a violenze, ma ci pensano i fascisti a fare scorrere il sangue.
Durante un comizio elettorale liberal-fascista a Marina di Carrara, il 13 maggio, vengono esplosi colpi di revolver e rimane ucciso il brigadiere della Guardia di Finanza Giuseppe Garagnano. Non é certamente il bersaglio designato, ma piuttosto la vittima di una provocazione che offre il pretesto alla rappresaglia degli squadristi, i quali uccidono all’istante il socialista Gino Bertoloni. Per l’assassinio del Garagnano viene arrestato il giovane repubblicano Dinucci, che sarà poi prosciolto, ma nessuno si preoccupa di sapere chi abbia ucciso il Bertoloni sulla pubblica via. Dopo pochi giorni viene rinvenuto il cadavere di un repubblicano, Silvio Vinoni, schiacciato sotto una lastra di marmo: pare sapesse chi ha sparato al Garagnano. Ma il giornale liberal-fascista e le autorità accreditano la tesi, invero originale, del suicidio.
Sempre nel maggio i fascisti uccidono a Torano l’operaio Ercole Bonvini e feriscono gravemente altri quattro lavoratori. I giorni fra il 24 maggio e il 2 giugno passano tra continue sparatorie e aggressioni. Carrara é presidiata dai fascisti toscani: un gruppo di questi, guidato dal famigerato Dumini, futuro assassino di Matteotti, provoca un incidente in un rione popolare per un fiore rosso portato da una ragazza. Interviene il fratello di questa, Renato Lazzeri, anarchico, che disarma e ferisce uno squadrista fiorentino. Il Dumini allora uccide il Lazzeri e quindi anche la madre di lui accorsa in difesa del figlio. Le autorità non intervengono, il Dumini torna alcuni giorni dopo nello stesso luogo a tentare una nuova provocazione, ma questa volta viene ferito ad una coscia. Il Giornale di Carrara, invia al «collega in giornalismo» l’augurio più fervido di guarigione.
Il 18 giugno altro scontro a fuoco a Nazzano tra anarchici e fascisti, questi ultimi appoggiati dai carabinieri. I fascisti devastano le sedi dei partiti popolari a Nazzano, Fossola e Raglia, bastonano e feriscono antifascisti e cittadini assolutamente ignari di ciò che era avvenuto.
Il 9 luglio i fascisti incendiano la sede della lega cavatori di Bedizzano e feriscono gravemente il capo-lega, l’anarchico Grassi, e altri due operai. Qualche giorno dopo viene prelevato dalla sua abitazione l’avvocato socialista Vico Fiaschi, stimatissimo tra la cittadinanza, autore di una serie di articoli apparsi sul Cavatore , organo della Camera del Lavoro, intitolati: «Cavatori, le cave sono vostre», nei quali ha svolto con acume politico e giuridico il tema delle rivendicazioni degli agri marmiferi usurpati dai baroni del marmo. La punizione non poteva farsi attendere: Fiaschi viene violentemente bastonato alla testa e ferito: la sua salute ne risentirà finché avrà vita.
La città vive in una atmosfera d’intimidazione e di terrore. Gli operai sono esasperati: privi di ogni organizzazione capace di resistere all’offensiva fascista, capiscono che non vi sono altre alternative che o rinunciare alla lotta o difendersi individualmente col coraggio della disperazione. Le elezioni politiche hanno demoralizzato i socialisti, che a Carrara hanno raccolto un terzo dei voti rispetto ai repubblicani, mentre i comunisti hanno ottenuto solo poche decine di voti (Salvatori é stato eletto in Versilia ma la sua elezione viene invalidata). I repubblicani nella loro vittoria elettorale vedono la conferma della giustezza della loro politica di equilibrio e di mediazione e si illudono che la bufera fascista sia di breve durata: il buon senso trionferà e l’ordine tornerà quando i social-comunisti si saranno indotti a rinunciare alle velleità rivoluzionarie. Allora le masse operaie capiranno che l’unica guida é quella del partito repubblicano. La Sveglia non perde occasione per schernire ingenerosamente i socialisti perché, disarmati e disorganizzati come sono, cedono alla violenza fascista.
Nell’atmosfera terroristica del luglio 1921, gl’industriali chiedono ed ottengono una riduzione dei salari di lire 4,50. L’industria del marmo é in crisi dopo la leggera ripresa del 1920, ed il Comune e la Camera del Lavoro aderiscono alla richiesta speciosamente giustificata della diminuzione del carovita. Dirigenti operai e lavoratori sono troppo demoralizzati per opporsi.
L’eco delle delittuose gesta dei fascisti a Carrara si é frattanto diffuso per tutta la Lunigiana da Monzone a Sarzana la popolazione, tradizionalmente socialista, vive nell’angoscia di una spedizione degli squadristi carraresi. L’occasione non tarda: il 15 luglio a Tendola viene ucciso in una rissa il fascista Pietro Procuranti. Ricci organizza subito la «spedizione punitiva»: due squadre di fascisti si recano a Monzone, paese di cavatori nell’alta Lunigiana, e mettono il paese a ferro e fuoco. Sono uccisi due operai, Rossi e Garfagnini, e feriti molti altri: le sedi del circolo socialista e di una cooperativa sono date alle fiamme. I camions dei fascisti si dirigono poi verso S.Stefano Magra, dove in un secondo scontro perdono la vita gli operai Vanini e del Vecchio e vengono feriti alcuni dei fascisti assalitori. Impediti dai carabinieri a proseguire per Sarzana gli squadristi guadano il fiume Magra ed hanno un altro conflitto a fuoco in cui perde la vita il fascista Venanzio Dell’Amico.
Per impedire che vi siano altre vittime i carabinieri arrestano i dieci superstiti fascisti e li traducono nel carcere di Sarzana: tra essi sono i principali esponenti del fascio carrarese e Renato Ricci.
Il giorno 20, da 500 a 800 fascisti della Toscana si concentrano a Marina di Carrara e, sotto il comando di Dumini, marciano su Sarzana per liberare i detenuti. La popolazione di Sarzana é in fermento: il terrore e l’odio hanno creato in ciascuno, uomini e donne, popolani e contadini, la fredda determinazione di difendersi ad ogni costo, di uccidere e di farsi uccidere piuttosto che lasciare la città in balia delle orde fasciste. I fatti sono noti: giunte a Sarzana le squadre fasciste sboccano sul piazzale della stazione, ove sono ad attenderle pochi carabinieri al comando del capitano Jurgens. Conoscendo lo stato d’animo della popolazione il comandante dei carabinieri si preoccupa di impedire un eccidio ed invita i fascisti a ritirarsi; questi invece tentano di travolgere i carabinieri, i quali sparano ed ne uccidono alcuni. Alla sparatoria segue lo sbandamento totale dei fascisti, che per la massima parte salgono su un treno in partenza per Carrara, mentre altri si disperdono nella campagna, oggetto di una vera e propria caccia, in cui si sfoga l’odio represso di una pacifica popolazione esasperata dalla violenza. In complesso, i fascisti deceduti sono dieci, di cui tre di Carrara: il capitano Rizieri Lombardini, ucciso dai carabinieri, lo studente Piero Gattini, ucciso sul treno che lo riportava a Carrara, e l’operaio Alcide Borghini.
Mentre i fascisti detenuti a Sarzana, sebbene responsabili di quattro omicidi e di numerosi ferimenti vengono posti in libertà, in Carrara l’impressione per la tragedia é enorme. Ma i fascisti non sono ancora sazi di sangue: il 21 quindici di loro si recano a Fossola, sobborgo di Carrara, e per rappresaglia uccidono l’operaio Chiappini nella propria abitazione sotto gli occhi dei congiunti, l’operaio Piccini che giocava a carte in una osteria e feriscono gravemente il suo compagno di gioco, certo Colombini. In pochi giorni sono state uccise diciotto persone e molte altre ferite.
Al disorientamento conseguente alla lunga azione intimidatrice e demoralizzatrice dei fascisti, subentra dopo i fatti del luglio nei dirigenti repubblicani e socialisti la perdita totale di ogni nozione di dovere politico e civile, la Giunta comunale promuove la costituzione di un comitato cittadino di pacificazione tra i partiti politici e pubblica un manifesto in cui carnefici e vittime sono messi sullo stesso piano:
– … inchiniamoci tutti, e cittadini, e non rialziamo le fronti che dopo aver compiuto in noi medesimi un rito purificatore, in cui avremo bruciati i nostri odi e gettato l’incenso odoroso dell’amore e della pacificazione.
E’ da notare che mentre il giornale repubblicano di Carrara addossa una parte di responsabilità dell’eccidio di Sarzana al capitano Jurgens per avere ordinato il fuoco ai suoi carabinieri, il conte Carlo Sforza, che si trova nella vicina Montignoso, telegrafa al Presidente del Consiglio proponendo il capitano per una ricompensa.
Ai fascisti non par vero che, con la cosiddetta pacificazione, si offre loro per riorganizzare le file: essi si rendono conto che l’atteggiamento dei repubblicani e dei socialisti é obiettivamente una manifestazione di impotenza che giova loro; la costruzione del comitato di pacificazione, infatti, divide il movimento popolare, perché una parte considerevole della massa non é affatto d’accordo sulla tregua; essa, inoltre, allontana il pericolo della rivolta popolare che stava maturando.
Fascisti e repubblicani, socialisti e liberali (e all’inizio anche qualche anarchico) siedono al tavolo della pacificazione in Carrara e in tutte le frazioni del comune. Ma questo orrendo connubio non dura molto, non solo perché i capi fascisti dell’Emilia obbligano Mussolini a rinunciare alla pacificazione nazionale, ma anche perché localmente la pacificazione si dimostra subito un espediente per dare una parvenza di legalità alla violenza che i fascisti continuano ad esercitare. Alla fine di luglio, infatti, viene ucciso con una fucilata alla testa, mentre dormiva in una capanna presso Bergiola, l’anarchico Arturo Michelini, e il 20 agosto, ancora a Bergiola, i fascisti uccidono Giovanni Lombardini.
Dal patto di pacificazione naturalmente sono rimasti esclusi i partiti… non italiani, cioè i comunisti e gli anarchici, ma anche i repubblicani vengono accusati di armare segretamente le loro avanguardie. Siamo giunti così alla fase in cui i fascisti cominciano a pensare alla distruzione della Camera del Lavoro e dell’Amministrazione comunale. Il 17 settembre il prefetto convoca il comitato di pacificazione per discutere la proposta fascista di fondere la Camera del Lavoro col sindacato fascista la cui costituzione é avvenuta sotto l’egida degl’industriali. La Camera del Lavoro respinge la proposta e Renato Ricci propone allora il controllo politico sui sindacati che viene accettato dai socialisti e dai repubblicani del comitato.
Dopo la distruzione della piccola organizzazione comunista (la tipografia ove si stampava Battaglia Comunista é stata data alle fiamme alla fine del luglio) soltanto la Camera del Lavoro ha mantenuto la posizione ferma e dignitosa, denunciando non solo la violenza, ma anche la natura apertamente reazionaria del fascismo. Purtroppo questa posizione viene limitata dalla continua proclamazione di apoliticità del sindacato. In settembre il segretario, Alberto Meschi, é minacciato dai fascisti che gli ordinano di abbandonare Carrara, e il segretario amministrativo, Petrucci, viene aggredito e percosso. La Camera del Lavoro risponde con uno sciopero generale di 24 ore. Riprendono allora le uccisioni, i fermenti e gli assalti alle sedi dei lavoratori. Ancora in settembre viene ucciso il fascista Alcide Andreani a Colonnata; due socialisti sono feriti a Grazzano e l’operaio Corrado Federici, anarchico, cade assassinato a Torano. A Bedizzano il 17 ottobre un fascista uccide Italo Bonucelli e il 29 a Pontecimato gli operai Natale Bedini e Giuseppe Volpi cadono sotto i colpi dei fascisti. Cadono ancora assassinati dai fascisti il giorno di Natale Orfeo Frassinetti a Gragnana, il 10 febbraio 1922 Lorenzo Angelini a Carrara, il 24 marzo Augusto Musetti pure a Gragnana. Termina il lungo elenco degli omicidi, ma ferimenti e violenze continuano per tutto il 1922 e oltre (7) .
Nel dicembre 1921 il giornale fascista Alalà inizia una campagna intimidatrice contro l’amministrazione Starnuti, chiedendo un’inchiesta amministrativa e una politica per la presunta responsabilità morale dei repubblicani nell’uccisione dei fratelli Picciati a Bergiola, avvenuta un anno prima. Alla seduta consigliare del 29 dicembre la minoranza non si presenta: il Sindaco, la Giunta e la maggioranza consiliare si dimettono e chiedono che si faccia l’inchiesta, le modalità della quale sono fissate in un accordo tra i deputati Eugenio Chiesa e Costanzo Ciano, accordo che sostanzialmente annulla ogni residua libertà di azione politica del partito repubblicano. L’inchiesta però non sarà mai fatta.
Dopo un anno di gestione commissariale, nel novembre del ’22, alle elezioni comunali votano solo i fascisti e i liberali; tutti gli altri partiti si astengono e i fascisti eleggono «democraticamente» il loro primo sindaco.
Anche la Camera del Lavoro, dopo un tentativo di riorganizzazione compiuto ai primi del ’22 abbandona la lotta e Alberto Meschi é costretto a lasciare Carrara. Il fascismo ha vinto.
Una volta che il potere fu conquistato, sia a Roma che in provincia, compito preminente del fascismo fu quello di renderne possibile l’esercizio; il clima di guerra civile sarebbe dovuto cessare per consentire lo svolgersi regolare delle attività economiche e il loro incanalamento nel nuovo ordine, attesoché gli scopi di arrestare i moti sociali e di comprimere le retribuzioni del lavoro, spostando ingenti masse di reddito dalle classi lavoratrici a quelle industriali e agrarie, erano ormai conseguiti.(8)
Il governo e il partito spingevano ora le organizzazioni fasciste periferiche ad avviarsi alla normalità, ma la nuova politica era destinata ad urtare contro ostacoli e resistenze nel senso stesso del regime.
Costruire il nuovo Stato non era possibile col solo mezzo dei decreti-legge se all’indirizzo centrale non corrispondeva un normale esercizio del potere ad ogni livello, cioè nei rapporti politici, economici ed amministrativi locali. Non erano pochi quei fascisti che volevano invece perpetrare la guerra civile e mantenere efficiente lo squadrismo. Nel 1923 i dissidi interni del partito divennero burrascosi e ad aggravarli contribuirono le rivalità personali tra i capi (9).
A Carrara la lotta ebbe un rapido epilogo: Gualtiero Betti, che pure era stato uno dei maggiori protagonisti dello squadrismo, fu espulso dal fascio e Renato Ricci poté diventare l’indiscusso «duce di Apuania». Il 13 maggio 1923 a coronamento della vittoria ottenuta, Ricci, accompagnato da Galeazzo Ciano, ebbe gli onori del trionfo. Il sindaco fascista Adolfo Angeli in un manifesto alla popolazione riconosceva al Ricci il merito «della palingenesi della nostra gagliarda razza etrusco-romana».
Gli avversari più temibili, i partiti operai e democratici e i sindacati di classe, erano ormai distrutti: coerentemente alla propria vocazione totalitaria il fascismo cercò allora nuovi avversari. Fu così la volta dei liberali, che pure nel ’21 e nel ’22 erano stati gli alleati del fascismo. A dire il vero, la maggior parte dei liberali entrò nelle file del fascio molto prima che fossero emanate le leggi eccezionali, ma non mancarono i renitenti. Per un paio d’anni costoro dettero di sé spettacolo miserando: sottoposti ad ogni genere di angherie da parte dei fascisti, protestavano sulle colonne del giornale locale rivendicando il merito di aver dato pieno appoggio al fascismo nascente e dichiaravano di non muovere alcuna opposizione al regime, ma semplicemente di dissentire sulla questione se si potessero fare le stesse cose dei fascisti stando fuori del fascio. Alla fine si convinsero che era più pratico esservi dentro.
Tuttavia fu necessaria una nuova prova di forza della corrente che faceva capo a Ricci. Questi, sconfitti nella primavera di quell’anno gli estremisti delle squadre d’azione, comprese che era necessario dare al fascio una base più larga e al tempo stesso inquadrare le forze della destra economica locale sotto la direzione politica fascista. Nel novembre 1923 i sindacati fascisti avanzarono dunque la provocatoria richiesta di un aumento salariale, dopo i ribassi dei mesi precedenti, richiesta che gl’industriali respinsero, convinti di poter domare il giovane «duce» di Apuania, il quale era, in fondo, una loro creatura. Allora Ricci lanciò la parola d’ordine dello sciopero generale, che ebbe una certa ampiezza avendo aderito una parte della classe operaia. Ricci seppe sfruttare il successo ed organizzò nuove squadre d’azione con gli squadristi a lui fedeli e con elementi del sottoproletariato, operai disoccupati e giovani reduci: insieme assalirono e bastonarono alcuni industriali e lanciarono bombe contro le case.
Una delegazione d’industriali e di esponenti liberali, che concordavano con i fascisti moderati, si recò a Roma a chiedere a Mussolini un energico intervento normalizzatore. Intanto a Carrara erano convenuti i corrispondenti di tutti i principali quotidiani d’Italia. Giovanni Ansaldo, allora redattore-capo del quotidiano riformista Il Lavoro di Genova, ebbe contatti con gli esponenti democratici carraresi che si riunirono nello studio dell’ex-sindaco Starnuti.
Un fascista dissidente, certo Manfredi, si era dichiarato disposto a cedere, dietro compenso, le prove materiali che l’eccidio del luglio del 1921 a Fossola era stato ordinato direttamente da Ricci, tesi che fu poi sostenuta anche al processo per quei fatti senza che la magistratura osasse incriminare Ricci.
I fascisti vollero intimidire l’Ansaldo e lo aggredirono all’uscita dell’Albergo Carrara. Ma il repubblicano Dante Isoppi, medaglia d’argento e più volte decorato di guerra, intervenne a interrompere a rivolverate la bastonatura dell’Ansaldo. Del che si pentì poi amaramente. Arrestato e rimesso in libertà provvisoria il giorno di Natale, l’Isoppi espatriò in Francia il 1° gennaio 1924 e poté fare ritorno a Carrara solamente diciannove anni dopo.
In seguito all’intervento del capo del governo lo sciopero fascista si esaurì: Ricci aveva ottenuto i suoi scopi, che erano quelli dell’intimidazione e della subordinazione del ceto industriale e del convogliamento nel sindacato fascista di gruppi di spostati e di sottoproletari.
Agl’inizi del 1924 agli antifascisti, disorganizzati, perseguitati, spesso ancora oggetto di violenza, non restava che la resistenza passiva. Ebbe inizio in quell’anno una importante emigrazione politica: non solamente i principali dirigenti politici e sindacali lasciarono Carrara, ma centinaia e migliaia di operai, repubblicani, socialisti, comunisti e anarchici, si rifugiarono all’estero in cerca di quella libertà, quel lavoro e quella speranza che in Italia avevano perduto. Gli anarchici Alberto Meschi, Gino Lucetti ed altri si recarono in Francia, il repubblicano Orazio Serra a Bruxelles. Molti comunisti si trasferirono in altre città italiane per poter continuare la loro attività; Aladino Bibolotti divenne uno dei dirigenti centrali del partito comunista, finché, arrestato nel 1926 e processato nel 1928 dal Tribunale Speciale, nel cosidetto «processone» ai maggiori esponenti comunisti, fu condannato a 18 anni e 4 mesi di carcere(10).
L’avvocato Luigi Salvatori rimase a Pietrasanta ad esercitare la professione, curando la difesa dei molti antifascisti tradotti in giudizio, fintantoché non venne arrestato a sua volta e dal Tribunale Speciale condannato nel 1928 a 2 anni, scontati i quali rimase fino al 1933 al confino di polizia.
Una seconda ondata emigratoria si ebbe dopo l’attentato di Gino Lucetti a Mussolini, avvenuto l’11 settembre 1926. In quel tempo l’incipiente crisi economica spingeva già molti lavoratori a cercare la via dell’emigrazione, ma ad indurli su quella via concorsero anche la reazione fasciata all’attentato Lucetti e l’inasprirsi delle misure repressive e persecutorie.
Gino Lucetti era un giovane operaio di Avenza probo e coraggioso. Anarchico, era stato più volte sottoposto dai fascisti a violente bastonature e minacciato di morte, per sottrarsi alla quale era emigrato in Francia, da dove poi tornò per uccidere Mussolini.
L’attentato di Lucetti e quello successivo di Zamboni a Bologna, organizzato probabilmente dagli stessi fascisti, accelerarono – com’è noto – il processo totalitario del regime, che aveva ricevuto impulso dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925. Le leggi eccezionali distrussero ogni norma costituzionale, misero fuorilegge i partiti politici, ripristinarono la pena di morte. Lottare contro il fascismo diventava sempre più difficile e pericoloso. Ma l’antifascismo era tutt’altro che distrutto, anche se le condizioni in cui doveva operare, e non solamente quelle oggettive, erano le peggiori.
Dopo le leggi eccezionali il processo di recupero delle persone, dei gruppi che si erano opposti al fascismo avvenne lentamente, spesso in maniera superficiale rispetto alla profondità cui l’infezione totalitaria, ideologica e pratica, era penetrata nel tessuto sociale. E ciò non tanto perché gli strumenti politici, i partiti e le associazioni libere, erano stati distrutti, quanto perché alla difficoltà, o addirittura all’impossibilità pratica di un’azione politica, si accompagnava la convinzione che ormai non si poteva puntare sulla ricostruzione pura e semplice delle condizioni di democrazia politica anteriori al 1919.
Il problema era l’abbattimento non solo del fascismo, ma della stessa struttura economica e sociale sulla quale il fascismo era germinato, s’era sviluppato ed affermato. Solo una crisi politico-sociale generale avrebbe potuto dare l’avvio ad un periodo storico in cui il concetto stesso di democrazia sarebbe sostanziato di un nuovo contenuto sociale che superasse quello semplicemente giuridico formale. E poiché la presa di coscienza di questa verità non poteva verificarsi per improvvisa illuminazione di pochi eletti, era necessario che essa maturasse nell’esperienza degli individui prima, poi dei gruppi clandestini, fino a divenire diffusa consapevolezza delle masse operaie e quella parte del medio ceto che volse le spalle al fascismo già negli anni immediatamente precedenti alla seconda guerra mondiale.
Il partito comunista, pur privato dei suoi migliori militanti, e il movimento libertario riuscirono a svolgere sino alle leggi eccezionali, in condizioni di semi clandestinità, una certa attività di propaganda e d’azione antifascista. I comunisti carraresi erano collegati con quelli di Massa, che disponevano allora di un’organizzazione più efficiente e più estesa. Ma l’arresto di Massimo Michi nel 1926(11) segnò praticamente la fine delle attività dei comunisti per qualche anno. Dovevano maturare condizioni nuove perché la lotta potesse essere ripresa.
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Superata la congiuntura postbellica in regime monetario di piena inflazione l’industria sembrò avere uno sviluppo impensato, confermando l’impressione del consolidarsi del regime. La produzione del marmo salì rapidamente ai più elevati livelli dell’anteguerra fino a raggiungere la punta massima di 337.000 tonnellate nel 1926. Diminuite le paghe operaie, aumentato l’orario di lavoro, intensificato il rendimento della produzione con l’introduzione di una maggiore meccanizzazione, pareva che per l’industria carrarese si fosse aperta un’era di prosperità senza precedenti. Ma se si confronta l’entità della produzione dei primi sei anni del dopoguerra, pari a tonnellate 1.313.214, con quella dell’esportazione nello stesso periodo, pari a tonn. 995.720, ci si avvede che in pochi anni s’era venuta costituendo una enorme giacenza di prodotto, pari alla produzione di un’annata buona. Questa tendenza al distacco tra produzione e vendita si accentuò dopo il 1926 sboccando in una gravissima crisi di sovrapproduzione.
Non c’é dubbio che, tecnicamente parlando, alle origini della crisi c’erano l’incapacità di coordinamento nella produzione e la spietata concorrenza dei commercianti. Ma questi fattori locali s’inserivano in un quadro nazionale e internazionale, che presentava profonde perturbazioni annuncianti la crisi economica generale che sarebbe scoppiata con inaudita violenza pochi anni dopo. La spinta deflazionistica (che culminò con il consolidamento della lira a quota 90, voluta dal fascismo per ragioni di prestigio e che rappresentò la catastrofe per le industrie d’esportazione), l’inasprirsi delle barriere doganali, il contrarsi di certi mercati tradizionali, l’oscillazione paurosa dei cambi, colsero gli industriali carraresi del marmo non soltanto impreparati a far fronte alla situazione, ma addirittura in una condizione di diffusa incoscienza.
Uno studioso fascista non carrarese, Ettore Magni, analizzando, dopo lo scoppio della crisi, la situazione dell’industria marmifera, ebbe ad esprimersi in questo modo:
Per troppo lungo tempo l’industria del marmo ha rappresentato un’attività di carattere personale e familiare, e le relative consistenze aziendali si son troppo confuse e identificate con quelle patrimoniali. Ed il tenor di vita degl’industriali é stato, nei periodi di floridezza, proporzionato (e non sempre anche) agli utili dell’azienda, senza preoccupazione alcuna di costruire congrue riserve e di fare tempestivi ammortamenti. Avvenuto il dissenso s’é cercato di salvare e di sistemare, nelle combinazioni societarie stabilire e profittando delle concesse provvidenze governative, non tanto le aziende gli industriali di pubblico interesse, quanto i patrimoni particolari schiacciati dal peso dei debiti privati, contratti per cause spesso estranee alle necessità delle industrie(12).
Ma non per ciò appunto che i maggiori industriali carraresi avevano appoggiato, promosso, finanziato il fascismo? Non erano forse convinti che il fascismo fosse una sorta di regime in cui, eliminato ogni fastidio sociale, ai ricchi fosse permesso godersi la vita nel lusso e nella spensieratezza? Non era forse per un regime cosiffatto che avevano creato la cavalleria fascista, e avevano fornito segretari federali, sindaci, squadristi, soldi, influenze autorevoli, asservendo a sé il nuovo personale politico direttivo che era andato a sostituire quello dell’epoca precedente?
Di fronte alle crescenti difficoltà economiche si fece strada l’idea di una disciplina della produzione e del commercio del marmo e Renato Ricci, imparentato ad una delle più cospicue famiglie d’industriali del marmo, se ne fece promotore. Il decreto 22 dicembre 1927 n. 2459 dette vita al Consorzio obbligatorio per l’industria e il commercio del marmo di Carrara, col quale praticamente venne preclusa ogni possibilità di iniziativa singola: ogni produttore, infatti, era tenuto ad escavare le quantità di marmo che il Consorzio giudicava opportune e la vendita all’interno e all’esterno veniva effettuata direttamente dal Consorzio. Renato Ricci fu nominato, con decreto dell’8 gennaio 1928, regio commissario del Consorzio. Il meccanismo dell’ente fu tale per cui questo – mentre non portò alcuna modificazione alle condizioni generali, tecnico-organizzative-finanziarie delle aziende, né tanto meno poté modificare la situazione si svantaggio in cui questa tipica industria d’esportazione era venuta a trovarsi dopo che Mussolini aveva ancorata la lira a 19,10 rispetto al dollaro – tolse ogni possibile iniziativa ai singoli operatori economici, attuando una grave discriminazione a tutto favore di quelle maggiori aziende che, o per detenere le migliori qualità dei marmi o solo per appartenere ai maggiori esponenti fascisti, di fatto controllavano tutto il movimento economico.
L’istituzione del Consorzio non solo determinò un aggravamento delle condizioni dell’industria, ma spaccò in due il movimento fascista: contro Renato Ricci si schierò la maggioranza dei piccoli e medi industriali, una parte cospicua dei dirigenti fascisti prese posizione contro il Consorzio. In seguito alla protesta degl’industriali e all’aggravarsi della situazione economica e sociale il Consorzio fu sciolto col decreto 14 febbraio 1930 n. 108 e Ricci fu fatto ministro: «promoveatur ut amoveatur»; solo dopo alcuni anni poté tornare a Carrara sfidando l’impopolarità e l’odio della popolazione. Urgevano per intanto provvedimenti che evitassero la catastrofe economica cui spingeva l’insorgere della crisi mondiale.
A questo momento il fascismo svelò la sua reale natura di strumento del capitale finanziario e del monopolio: il complesso dei provvedimenti presi tra il 1930 e il 1931 portò distruzione della tradizione struttura aziendale industriale e favorì l’intervento del monopolio minerario Montecatini, facendo ricadere il peso dell’operazione sulla classe operaia e sugli enti locali non meno che sulle maggiori aziende, praticamente espropriate.
Il decreto-legge 3 luglio 1930 n. 1405 prevedeva il consolidamento di tutti i debiti a breve termine, contratti dagli industriali del marmo per il miglioramento degli impianti, attraverso la Banca Nazionale del Lavoro, che avrebbe riscattato quei debiti, rendendosene cessionaria verso le Banche creditrici e stipulando con i debitori mutui ipotecari a lunga scadenza e ad ammortamento semestrale. Il ministero delle corporazioni, inoltre stabilì la concessione ai mutuari di un contributo per il pagamento degli interessi (due milioni di lire per la durata di venti anni sul fondo del Credito Minerario) mentre un altro contributo (un milione di lire per venti anni) fu posto a carico degli Enti locali del Comune di Carrara e dell’Amministrazione provinciale(13). Altre agevolazioni minori avrebbero dovuto fornire una più moderna organizzazione commerciale e tecnica dell’industria, attraverso la fusione delle ditte e la loro unificazione in società anonime.
Senonché per il dilagare della grande crisi economica mondiale quei provvedimenti, che furono applicati poi nel modo che vedremo, non avrebbero potuto conseguire alcun risultato pratico: la disorganizzazione del mercato di vendita e la scarsità di mezzi finanziari esercitavano sui prezzi una compressione impossibile a rimuoversi.
Con decreti dell’aprile e del novembre 1932 fu costituita presso la Banca del Lavoro uno speciale fondo di garanzia per il servizio delle obbligazioni, fondo che avrebbe dovuto essere alimentato con le semestralità dei contributi dello Stato e degli Enti locali, presumendosi che le società di cui si stava tentando il salvataggio difficilmente avrebbero potuto versare le somme previste per l’ammortamento del debito consolidato. In realtà le società non furono in grado di versare neppure le prime rate degli interessi(14).
Così ebbe inizio la catastrofe. I due complessi di provvedimenti, antitetici gli uni agli altri, quelli cioè del Consorzio obbligatorio che tendeva ad un monopolio delle vendite e quindi ad un sostegno artificiale dei prezzi, e quelli relativi alla liberalizzazione del commercio, produttrice di un ribasso dei prezzi, erano completamente falliti. Il primo, indipendentemente dal suo significato politico, aveva urtato contro la politica monetaria del governo fascista e il secondo contro l’inadeguatezza organizzativa del mercato locale e la crisi economica mondiale. Tra il 1928 e il 1933 vennero annunciati 38 fallimenti, complessivamente con un attivo di 23.427.000 lire e un passivo di 57.263.000 lire. In realtà é accertato che presso i vari Tribunali italiani, tra il 1927 e il 1933, fu dichiarato il fallimento di 62 aziende marmifere industriali e di 32 aziende commerciali(15).
I provvedimenti governativi non produssero dunque alcun beneficio per l’industria del marmo ma al disopra del fatto tecnico della loro congruità o meno al fenomeno economico che s’intendeva modificare, interessa vedere quale fosse il loro significato più propriamente politico, e questo lo si desume sia dal modo come i provvedimenti furono applicati, sia dagli effetti che essi produssero negli anni successivi.
In primo luogo bisogna osservare che la Banca Nazionale del Lavoro concesse il riscatto dei debiti delle ditte più importanti di Carrara, senza neppure eseguire il più superficiale degli accertamenti circa la natura dei debiti di cui era stato richiesto il riscatto, se cioè essi fossero stati contratti per effettivi investimenti al fine di migliorare la coltivazione delle cave di marmo o se fossero stati originati da altri motivi. Tanto é vero che, mentre si calcola di non oltre 25 milioni di lire la somma effettivamente spesa nel periodo previsto dal decreto del 1930 per il miglioramento della lavorazione nelle cave del territorio di Carrara e di Fivizzano, ai due soli gruppi industriali cui fu fatta la concessione e alla ditta Guido Murray Fabbricotti vennero riscattati debiti per un importo di circa 74 milioni. E’ quindi certissimo che maggior parte dei debiti riscattati dalla Banca Nazionale del Lavoro non era stata destinata al miglioramento della lavorazione delle cave. Risulta del resto, per fare un esempio, che la sola ditta Carlo Fabbricotti, del gruppo S.A.M.A., dei debiti di cui chiese ed ottenne il riscatto ne incluse uno di 14 milioni, contratto per sanare una perdita subita dalla sua rappresentanza di New York. Si può affermare perciò che gran parte dei debiti riscattati erano debiti contratti per sanare perdite di natura commerciale o per far fronte alle spese generali e di famiglia, anche relative al patrimonio personale dei titolari delle ditte debitrici. La Banca Nazionale del Lavoro era certamente al corrente di questa situazione, e i crediti concessi non furono sottoposti, se non all’inizio, all’apposita commissione prevista dall’articolo 8 del decreto ministeriale 11 aprile 1931, proprio per evitare che sorgessero opposizioni alla concessione dei mutui. Questo procedimento, tanto discriminatorio quanto illegittimo, non soltanto privò molte ditte che forse avrebbero potuto salvarsi della possibilità di giovarsi delle provvidenze legislative e quindi di evitare di essere travolte nella catastrofe, ma mise l’industria carrarese alla mercé della banca e del capitale finanziario. E questo era appunto il fine ultimo cui miravano la Banca Nazionale del Lavoro e i potenti interessi economici privati che le stavano alle spalle.
Le Banche che avevano anticipato considerevoli somme alle ditte carraresi mediante l’operazione della Banca del Lavoro furono tolte dall’imbarazzo in cui erano venute a trovarsi, non potendo sperare alcun recupero diretto dalla richiesta di fallimento. Eppure quelle Banche, durante il periodo dell’inflazione monetaria, avevano conseguito imponenti utili col solo commercio delle cave straniere, date in pagamento agli esportatoti carraresi.
D’altra parte l’onere che le ditte si assumevano nei confronti della Banca del Lavoro era chiaramente tale da non consentire ad esse neppure la corresponsione delle rate degl’interessi, come di fatto avvenne. Si trattò dunque di una vasta manovra intesa a conseguire un preciso obiettivo: l’espropriazione dei principali gruppi industriali carraresi a favore del capitale monopolistico private, tramite l’intervento della Banca.
La Società Montecatini fin dal 1926 aveva cominciato ad occuparsi dell’escavazione del marmo, rilevando il complesso delle cave della Società Anonima Nord Carrara, il cui esercizio si rivelò del tutto passivo. La Montecatini decise allora di risolvere la situazione allargando la sua influenza ai bacini marmiferi carraresi. Agl’inizi della crisi essa offerse alla ditta Carlo Andrea Fabbricotti di rilevare tutte le proprietà marmifere per la somma di 65 milioni e poiché l’offerta fu rifiutata agì attraverso la Banca del Lavoro nel modo descritto. Nel 1935, quando lo scoperto per gli interessi e per quote di ammortamento non pagate dagli industriali carraresi, raggiunse la cifra di lire 8.164.993, la Banca Nazionale del Lavoro, stipulato un accordo con la Montecatini, mandò all’asta le proprietà insolvibili, costituendo per il loro rilevamento la Società Anonima Marmi d’Italia, il cui capitale veniva sottoscritto oltre che dalla Banca del Lavoro, dall’I.R.I. e dalla Montecatini. Quest’ultima infine rilevò la Soc. An. Marmi d’Italia e divenne proprietaria di oltre il 60% delle proprietà marmifere carraresi acquistate complessivamente per lire 22.028.875! La ditta C.A. Fabbricotti per la quale la Montecatini aveva offerto 65 milioni fu acquistata all’asta per lire 9.796.042 e la S.A.M.A., valutata dalla perizia del Tribunale oltre 40 milioni fu acquistata per lire 6.384.877!(16)
Questo era il fascismo. La maggior parte degli industriali carraresi che, ritenendolo un regime di comodo per la compressione delle istanze sociali dei lavoratori e per la eliminazione della concorrenza della media e piccola industria, lo avevano finanziato e sorretto, si accorsero a loro spese di quale fosse la sua vera natura e come ormai non rappresentasse nella vita economica italiana se non lo strumento dei più rapaci gruppi monopolistici.
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Sciaguratamente le conseguenze della catastrofe economica che preparò e accompagnò l’avvento della Montecatini a Carrara, non furono subite solamente dalle maggiori dinastie dei baroni del marmo. Tra il 1930 e il 1936 la caduta della produzione provocò una spaventosa ondata di disoccupazione e di miseria. Carrara conobbe allora uno dei più tragici periodi della sua storia. Le condizioni di vita delle classi popolari erano un seguito di indicibili sofferenze: in molte famiglie mancava letteralmente il cibo. I casi di ricovero all’ospedale per denutrizione erano frequentissimi e si avevano decessi la cui causa era semplicemente l’inedia. I suicidi per disperazione, in tutti gli strati sociali, furono frequentissimi e la disposizione del governo ai giornali di non darne notizia non riusciva certamente ad impedire che venissero a conoscenza del pubblico.
D’altronde i lavoratori che avevano la fortuna di avere un’occupazione non soltanto erano retribuiti con salari di fame (un chilo di pane costava circa un quinto del loro salario giornaliero), ma erano sottoposti allo sfruttamento e alle vessazioni della classe padronale, arbitra della situazione attraverso i sindacati fascisti. Non che mancassero tra i dirigenti sindacali coloro che si rendevano contro l’iniquità delle clausole dei contratti di lavoro e, peggio, del modo come venivano applicate, ma il potere delle federazioni fasciste degli industriali era assoluto e le rare vertenze individuali vedevano sempre soccombere il lavoratore, che poi per rappresaglia, finiva col perdere il posto di lavoro.
In queste condizioni, non solamente tra la classe operaia, ma anche tra i ceti medi, serpeggiava un diffuso malcontento ed un’avversione sempre più profonda al regime fascista. Dopo il 1935, quando cominciò il periodo delle guerre fasciste, migliaia di disoccupati cercarono scampo alla vita di umiliazione e di miseria nell’arruolamento volontario. La maggior parte di quelli che erano stati condotti alla conquista dell’impero, tornarono poi a casa con l’ameba e la malaria. Ma l’allontanamento forzato di uomini validi dalle famiglie non contribuì certo a rafforzare in chi restava l’amore per il regime che dopo la fame offriva la guerra.
L’unità che agl’inizi il fascismo era riuscito a stabilire tra i ceti medi e la classe padronale sotto l’egida della «rivoluzione purificatrice, rinnovatrice, potenziatrice del paese», s’incrinava fino a dar luogo ad una frattura morale netta e irrimediabile. Il fascismo si svelava sempre più nella coscienza popolare e nella valutazione del cittadino medio, come un regime di violenza e di sopruso, ligio agl’interessi dei grandi industriali, dell’alta finanza, dei profittatori in guerra e in pace. L’incoercibile «ius murmurandi» si accompagnava a sempre più frequenti episodi di pubblica riprovazione e di opposizione.
I fascisti che, divisi a Carrara in due opposte fazioni, quella dei sostenitori e quella degli avversari di Ricci, avevano contratto la saggia abitudine di bastonarsi tra loro, più frequentemente però si riunivano per bastonare i vecchi antifascisti o quanti, specialmente operai, avessero manifestato il loro dissenso o si fossero rifiutati di dare il voto obbligatorio al candidato fascista alla Camera. Gli episodi di violenza tornarono ad essere assai frequenti, ma, a differenza di dieci anni prima, invece di demoralizzare contribuivano ad alimentare l’odio per il fascismo, ad aprire gli occhi ai giovani studenti ed operai che avevano alle spalle il vuoto politico di un decennio, ed in molti a suscitare o a rafforzare la volontà di combattere il fascismo attivamente.
DOCUMENTI
R. Decreto Legge 3 Luglio 1930 n. 1045
Sistemazione finanziaria dell’industria marmifera carrarese
( « Gazzetta Ufficiale », 9 Agosto 1930)
Art. 1° – La Banca Nazionale del Lavoro é autorizzata a riscattare, rendendosene cessionaria, i crediti accordati sotto qualsiasi forma da Banche ed altri istituti di Credito agli esercenti delle cave di Marmo, situate nei Comuni di Carrara e Fivizzano, i quali abbiano destinato l’importo di tali crediti al miglioramento della coltivazione delle Cave medesime.
All’atto del riscatto i detti crediti, che verranno estinti nel termine massimo di 20 anni mediante semestralità comprensive dell’interesse, del diritto di commissione spettante alla Banca Nazionale del Lavoro, della quota di abbonamento per le tasse e della quota di ammortizzazione, dovranno essere pienamente garantiti dai debitori i quali a tal uopo dovranno essere in grado di concede adeguata ipoteca di primo grado sui beni di loro proprietà, con preferenza sui beni patrimoniali (case e terreni).
Le operazioni che saranno compiute dalla Banca Nazionale del Lavoro in esecuzione di quanto sopra, sono assimilate alle operazioni di credito fondiario; e ad esse saranno quindi applicabili tutte le vigenti disposizioni di legge e di regolamento che disciplinano il credito fondiario, in quanto siano compatibili con le disposizioni contenute nel presente decreto.
Art. 2° – Il prezzo di riscatto dei crediti sarà corrisposto ai cedenti dalla Banca Nazionale del Lavoro mediante obbligazioni ipotecarie che essa é a tal uopo autorizzata ad emettere. Dette obbligazioni saranno ammortizzabili nel periodo massimo di 20 anni dalla data di emissione, come i mutui corrispondenti che saranno stipulati dalla Banca con i debitori per effetto del riscatto.
Tali obbligazioni frutteranno l’interesse annuo del 6% pari a quello dei mutui in dipendenza dei quali saranno emesse.
Art. 3° – Al rimborso delle obbligazioni si provvederà mediante estinzione di tante obbligazioni quante corrispondono al piano di ammortamento dei mutui e in modo che l’ammontare di quelle in circolazione alla fine di ciascun anno non possa mai eccedere il capitale ancora dovuto sui mutui ad esse afferenti.
Le obbligazioni saranno garantite dalla massa delle ipoteche costituite a favore della Banca sui beni dei debitori ceduti.
In corrispondenza della massa delle obbligazioni in circolazione sarà costituito dalla Banca uno speciale fondo di riserva.
Per riscuotere le semestralità di ammortamento dei crediti la Banca avrà facoltà di procedere contro i debitori morosi con la stessa procedura di cui si giova lo Stato per la riscossione delle imposte dirette.
Le obbligazioni saranno emesse a norma del presente decreto saranno parificate ad ogni effetto alle cartelli del credito fondiario.
Art. 4° – Il Ministero delle corporazioni, per l’estinzione dei mutui di cui al presente decreto, é autorizzato a concedere a favore dei mutuatari, a decorrere dall’esercizio 1929-30 e non oltre l’esercizio 1948-49, il contributo previsto dall’art. 4 della legge 27 Giugno 1929 n. 1108, recante provvedimenti per favorire il credito alla industria mineraria.
La misura di detto contributo dello Stato, che sarà corrisposto in rate semestrali alla Banca Nazionale del Lavoro, é fissata nell’importo massimo di 2 Milioni di Lire per ogni esercizio finanziario.
Art. 5° – La Provincia di Massa e Carrara, il Comune di Carrara e il Consiglio Provinciale dell’Economia di Massa e Carrara contribuiranno, entro il limite massimo complessivo di un milione di Lire annue, all’ammortamento dei mutui sopraddetti. Il Comune di Carrara vi provvederà mediante una parte della tassa sui marmi istituita a suo favore dalla legge 15 Luglio 1911, N.749, provvedendo, ove occorra, con altri mezzi alla sistemazione del proprio bilancio, anche in deroga ai limiti fissati dalle disposizioni in materia di tributi degli enti locali.
La predetta deroga é autorizzata anche in favore della Provincia e del Consiglio Provinciale dell’Economia di Massa e Carrara.
Alla tariffa della tassa marmi indicata nella tabella annessa alla citata legge del 15 Luglio 1911, N.749, é sostituita quella attualmente in vigore quale risulta dal Bilancio del Comune di Carrara per l’anno 1930 e riprodotta annessa al presente Decreto, firmata, l’ordine nostro, dal Ministro proponente di concerto con quello per l’Interno.
Art. 6° – Gli atti di costituzione di società aventi per scopo l’esercizio di cave di marmi e dell’industria del marmo nei Comuni di Carrara e di Fivizzano, che saranno stipulati entro un anno dalla pubblicazione del presente Decreto, saranno soggetti alla tassa fissa di registro ed ipotecaria di L. 10 oltre gli emolumenti ipotecari.
Alla stessa tassa fissa di L. 10 saranno soggetti gli atti con i quali, entro il termine suddetto, una Ditta o Società commerciale esercente l’industria del marmo nei Comuni di Carrara e Fivizzano ceda oppure apporti la sua azienda ad un’altra ditta o società commerciale, purché esercente la stessa industria, negli stessi Comuni.
Art. 7° – Con Decreti Ministeriali da emanarsi di concerto tra i Ministri interessati saranno stabilite le disposizioni eventualmente occorrenti per dare esecuzione al presente decreto.
Art. 8° – Il presente decreto avrà effetto dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regio e sarà presentato al Parlamento per essere convertito in Legge.
Il Ministro proponente é autorizzato alla presentazione del relativo disegno di legge.
Relazione Montecatini – Gruppi marmiferi carraresi
Le eventuali condizioni basilari sulle quali dovrebbe essere imperniata l’operazione di rilievo dei gruppi S.A.M.A. – MARMIFERA LIGURE FAGGIONI CUCCHIARI & C. sono le seguenti:
a ) rilievo dei due gruppi, esclusa cioè l’eventualità del solo rilievo del gruppo S.A.M.A. in quanto questa parziale soluzione impedirebbe di utilizzare l’esuberante attrezzatura meccanica del gruppo Ligure Faggioni Cucchiari per riorganizzare e riattrezzare le Cave del Gruppo S.A.M.A., ciò che richiederebbe altrimenti una spesa molto rilevante;
b ) acquisto all’asta dei due gruppi per un importo complessivo non superiore ai 10-11 milioni. Le spese di registro domanderanno un’altra somma di circa 800-900.000 Lire;
c ) costituzione di una nuova Società Anonima a nome della quale saranno rilevati i due Gruppi ed a cui verranno conferite per un importo di 5 Milioni circa le attività marmifere nella Zona Apuana della Nord Carrara Marmi e Pietre d’Italia costituite dalle concessioni marmifere, impianti, segherie, laboratori, etc.; la nuova Società rileverà pure, a prezzo di bilancio, gli stocks di marmi della Nord Carrara Marmi e Pietre d’Italia, costituiti da materiali totalmente realizzabili e valutati con criteri prudenziali;
d ) il capitale della nuova Società sarà formato da partecipazioni della Montecatini, Banca del Lavoro ed I.R.I. in proporzioni da convenirsi, la Banca del Lavoro dovrà assicurare al nuovo Ente un finanziamento di L….. al tasso del mezzo per cento all’anno più del tasso ufficiale della Banca d’Italia, protempore, franco di provvigioni, spese, etc.; finanziamento da rimborsarsi entro 10 anni, in quote annuali eguali;
e ) poiché scopo dell’operazione non é soltanto quello di riassestare le due aziende S.A.M.A. – Marmifera Ligure Faggioni Cucchiari, ma bensì anche di concorrere al miglioramento ed alla sistemazione di tutta l’industria marmifera della zona Apuana, é indispensabile che si provveda a risolvere anche l’attuale anarchia delle vendite e dei sistemi di produzione della zona Carrarina, con provvedimenti disciplinari della industria e del commercio dei marmi, in tutta la zona Apuana. per fare questo occorre fra l’altro:
1°) contingentare le vendite e conseguentemente la produzione, regolando l’apertura di nuove cave e l’impianto di nuove segherie e laboratori che non dovrebbero avvenire senza un preventivo permesso dalle Autorità superiori;
2°) formare un listino dei prezzi di vendita dei marmi greggi, con obbligo a tutte le ditte venditrici di strettamente osservarli, sotto pena di gravi sanzioni da parte di un Comitato di sorveglianza e controllo, da costituirsi per la disciplina dei contingentamenti e dei prezzi;
3°) procedere all’epurazione dagl’Albi degl’industriali e commercianti della zona Apuana eliminando le ditte ed i nominativi che hanno concorso con dissesti ripetuti ad aggravare la situazione del commercio marmifero;
4°) stabilire il divieto di vendita ai poggi a compratori esteri, nonché alle Ditte e nominativi italiani non iscritti negli albi;
5°) ordinare che i contratti di lavoro ed i regolamenti sindacali abbiano rigida applicazione anche nel Carrarino, cosa che attualmente non avviene.
Questa disciplina eliminerà molti abusi e l’affluire sul mercato di produzioni fatte in condizioni anormali di retribuzione dei lavoratori e senza rispetto alle discipline sindacali;
6°) modificare l’attuale stato di cose nei confronti delle tasse di pedaggio, riducendole sensibilmente per alleggerire l’eccessivo onere che esse costituiscono a carico dell’industria marmifera;
7°) provvedere al riscatto della Ferrovia Marmifera, cedendone l’esercizio ad un consorzio fra industriali del marmo, onde ridurre le tariffe di trasporto che sono oggi elevatissime e che incidono fortemente sui prezzi di costo dei marmi.
I provvedimenti di carattere generale ai quali sopra accenniamo, hanno già forma oggetto di studio della Federazione Nazionale Fascista delle Industrie Estrattive, che ha compilato in merito un’esauriente relazione.
Milano, 30 Aprile 1935.
Convenzione Banca del Lavoro – Montecatini
del 19 Luglio 1935
ARTICOLO 1° – In conformità degli accordi presi con la Società «Montecatini» la Banca Nazionale del Lavoro con sede in Roma ha costituito una Società Anonima per Azioni sotto la denominazione di «Società Anonima Marmi d’Italia» con capitale sociale di Lire 10.000.000 sottoscritto e versato dalla Banca stessa.
ARTICOLO 2° – La Società così costituita interverrà nei prossimi esperimenti d’asta pubblica e, alle condizioni stabilite nei relativi bandi giudiziari di vendita, si renderà aggiudicataria delle cave di tutti gli impianti industriali che costituiscono tutte le attività marmifere e industriali della Società Anonima Marmi Apuani (S.A.M.A.) e della Società Anonima Marmifera Ligure Faggioni Cucchiari, entrambe con sede in Carrara, descritti nelle relative perizie e formanti oggetto delle vendite giudiziali promosse contro tali Società dalla Banca Nazionale del Lavoro.
ARTICOLO 3° – La Società medesima provvederà agli acquisti di cui sopra, con il proprio capitale sociale ed occorrendo con una anticipazione che la Banca Nazionale del Lavoro si dichiara disposta a farle con un prestito diretto infruttifero.
ARTICOLO 4° – Entro e non oltre il termine di due mesi, decorrenti dal giorno dell’aggiudicazione dell’ultimo lotto dei beni di cui si tratta, la Società «Montecatini» provvederà al rilievo totale della Società suindicata alle seguenti condizioni:
a ) il prezzo d’acquisto di tutte le cave ed impianti industriali descritti nel bando d’asta, viene di comune accordo fissato nella complessiva cifra di L. 12.000.000 riferita al momento delle aggiudicazioni stesse. Il pagamento dell’intiera somma verrà fatto per contanti e servirà:
– a rilevare in primo luogo il pacchetto azionario della Società Marmi d’Italia, al valore nominale. La somma residuante andrà a deconto dell’anticipazione eventualmente fatta dalla Banca del Lavoro non raggiungessero complessivamente la somma di L. 12.000.000 il residuo andrà a favore della Banca Nazionale del Lavoro.
b ) La Società Montecatini rimborserà alla Banca Nazionale del Lavoro l’importo delle spese di costituzione ed amministrazione della costituenda Società a partire dalla data delle aggiudicazioni all’asta.
La Montecatini però dovrà avere la possibilità, attraverso gli Organi della propria consociata Nord Carrara Marmi e Pietre d’Italia di poter regolare la gestione della nuova società per produzione, trasformazione e vendita, sino al momento del rilievo del pacchetto azionario.
c ) La Montecatini rimborserà alla Banca Nazionale del Lavoro le spese per l’aggiudicazione alle aste giudiziarie delle attività di cui si tratta, nonché i depositi effettuati per intervenire alle aste, e che eventualmente non fossero ancora rimborsati.
d ) La Montecatini si impegna di rilevare gli stocks di marmi che al momento del passaggio del pacchetto delle azioni della nuova Società si fossero formati, sia durante la gestione del sequestratario giudiziario, sia quella della nuova Società, con un massimo di Lire 350-400.000 e valutati ai prezzi minimi correnti per gli acquisti ai poggi ed a tutte le norme in corso circa la misura, confezione dei blocchi, etc..
e ) In conseguenza di quanto sopra, la nuova Società rilevata dalla Soc. An. Montecatini non avrà altra esposizione debitoria che verso la Montecatini stessa per i rilievi tutti da questa effettuati, per conto della nuova Società, come sopra detto.
La Banca Nazionale del Lavoro garantirà la situazione contabile della Società trapassata, riferita al momento del trapasso ed approvata alla Assemblea straordinaria degli azionisti, che provvederà anche alla sostituzione del Consiglio di Amministrazione e dei Sindaci.
ARTICOLO 5° – Su richiesta della Società Montecatini, sempre che il capitale azionario venga elevato a L.12.000.000 la Banca Nazionale del Lavoro si impegna a mantenere anche dopo effettuato il trapasso, il proprio concorso alla formazione del capitale sociale della società in oggetto, sino al massimo di L. 3.000.000 nominali e ciò per la durata di due anni a decorrere dalla data del trapasso sopraddetto.
Per contro la Società Montecatini assume l’impegno di rilevare entro e non oltre i suddetti due anni, la suddetta quota di partecipazione azionaria della Banca Nazionale del Lavoro, valutando le azioni alla pari e cioè pagando il controvalore costituito dal valore nominale delle azioni stesse.
La Banca Nazionale del Lavoro avrà diritto in tale caso di farsi rappresentante nell’amministrazione della Società da un Consigliere sino al momento in cui la Montecatini non rileverà la sua quota di partecipazione azionaria della Banca Nazionale del Lavoro.
ARTICOLO 6° – La Banca Nazionale del Lavoro si impegna a sostenere presso le autorità politiche e sindacali tutte le eventuali proposte e richieste della Società Montecatini che abbiano per scopo il risanamento di tutte le industrie marmifere carraresi.
ARTICOLO 7° – Resta convenuto che il presente accordo dovrà avere piena esecuzione non oltre i 12 mesi dalla data in cui esso verrà firmato; trascorso il detto periodo senza che ciò sia avvenuto resta in facoltà della Montecatini da considerarsi sciolta da ogni impegno.
ARTICOLO 8° – Resta pure convenuto che a partire dalla firma del presente accordo il presentatario giudiziario dei due gruppi S.A.M.A. e Marmifera Ligure Faggioni Cucchiari, si terrà in contatto con gli organi direttivi, tecnici e commerciali della Nord Carrara Marmi e Pietre d’Italia, per regolare le lavorazioni e le produzioni da farsi sino all’aggiudicazione attraverso le aste giudiziarie.
Roma, 19 Luglio 1935.
NOTE
(1) La Sveglia Repubblicana, a. XI, 25 gennaio 1919, N. 5
(2) Nel secondo dopoguerra passerà al P.S.I. prima e al P.S.D.I. poi.
(3) La Battaglia, settimanale dei socialisti dei paesi del marmo e Val di Magra, a. XIX, n. 13, 6 luglio 1919.
(4) L’Indipendente, giornale della Provincia di Massa e Carrara, A. XXIII, n. 48, 29 novembre 1919.
(5) A. ANGELI, Pagine di fede e di battaglia, Carrara, ed. I.E.F.A., 1936, fasc. I, pag. 35.
(6) Il Giornale di Carrara, 12 marzo 1921.
(7) Gli antifascisti uccisi dai primi del 1921 al marzo del 1922 furono 20, e i feriti non meno di 40.
(8) Le retribuzioni reali in Italia, fatte pari a 100 nel 1913, scesero fino a 64 nel 1918 per risalire nel 1921 a 127. Da quell’anno l’indice riconminciò a scendere senza più fermarsi.
(9) Cfr. Alalà, organo della Federazione provinciale fascista apuana, 12 maggio 1923, n. 19. L’articolo di fondo fa una rassegna dei più importanti dissidi scoppiati tra le diverse fazioni fasciste in tutta Italia.
(10) Cfr. Il processone, a cura di Domenico Zucaro, Roma, Editori Riuniti, 1961.
(11) Michi fu arrestato con la sorella Luisa, con Silvio Mazzi, Natale Biagini, Mario Bigini e Maria Molinari. Fu inviato al confino per 5 anni e liberato nel 1929. Ammonito nel ’31 riuscì fino al 1939 a svolgere attività clandestina. Nuovamente arrestato in quell’anno fu condannato a 6 anni dal Tribunale Speciale e liberato il 1° maggio 1943.
(12) ETTORE MAGNI, Industria e commercio dei marmi apuani, Roma, C.F.N.S.I., 1934.
(13) Il comune di Carrara fu costretto a contribuire per un importo annuale di lire 750.000 per la durata di venti anni, con gravi conseguenze economiche e finanziarie particolarmente sensibili in un periodo di riduzione delle entrate a causa della crisi economica.
(14) Il bilancio del 1932 della Banca Nazionale del Lavoro rivela che in quell’esercizio l’importo dei mutui era salito da lire 51.310.356 a lire 71.601.090 e che le obbligazioni relative in circolazione erano salite da lire 52.000.000 a lire 72.678.500. Al 30 giugno 1932 le semestralità scadute e insolute aumentavano a lire 1.179.854 per il cui recupero erano in corso azioni giudiziarie.
(15) Il costo della escavazione del marmo, nel periodo considerato, era calcolato a lire 6,30 al palmo cubo, di cui 5,30 di mano d’opera e lire 1 di lizzatura(trasporto dalla cava al pezzo di caricamento). Il ricavo della vendita del marmo, depurato delle spese delle successive lavorazioni, sia dall’estero che dall’interno, si aggirava sulle 5-6 lire. Ciò significa che già in partenza, cioé al poggio, la perdita per ogni palmo cubo oscillava tra lire 0,30 e lire 1,30. (Una tonnellata di marmo equivale a circa 20-22 palmi cubi).
(16) Vedasi in appendice il piano della Montecatini per la sistemazione dei gruppi marmiferi carraresi e il testo dell’accordo tra la Montecatini e la Banca Nazionale del Lavoro del 19 luglio 1935.