Carrara: Ritratto di una città nel suo “secolo d’oro”

(Foto Daniele Canali)
(Foto Daniele Canali)

Quando il 27 aprile 1859 Carrara si sollevava contro le truppe estensi cacciandole ed inseguendole nella ritirata, il suo profilo sociale ed economico era profondamente cambiato rispetto al trentennio precedente. Non si poteva dire la stessa cosa del suo profilo urbano; infatti  Carrara conservava nella sua struttura urbana la fisionomia ereditata della città settecentesca e questa era frutto di una continua stratificazione durata secoli. Dal medioevo la città, piuttosto che modificare e sostituire se stessa era cresciuta giustapponendo al nucleo originario nuovi quartieri; nel 1557 l’inizio dei lavori di costruzione delle mura albericiane disegna lo spazio urbano per circa 250 anni.

Nella prima mappa catastale della città eseguita nel 1822 Carrara ha ancora i tratti appena descritti. Nel 1830 veniva atterrata la Porta dello Stradone di San Francesco (copia dell’Arco del Salvatore tuttora visibile a Massa)  che affiancava il palazzo del Principe e nel 1838 si demolivano la Porta del Cavallo e la Porta della Lugnola . Nel 1839, appena fuori la Porta Nuova a Mare (For d’ porta) viene edificato il Teatro degli Animosi e nello spazio antistante Bernardo Fabbricotti farà edificare nel 1847 un edificio che segna la prima espansione  sul nuovo asse urbano in direzione del mare. A parte l’area rinascimentale e monumentale di via e piazza Alberica, il centro storico che si irraggiava dal Duomo e che aveva in via Rossi e via S.Maria le vie centralissime, manteneva quella fisionomia di cui parlava il Targioni-Tozzetti nella prima metà del ‘700; pochissimi i tratti di strada lastricata, case basse, raramente di tre piani, piccole porte, finestre strette e tetti di piagne d’ardesia. Osservando la fotografia scattata il 24 giugno 1877 che ritrae il palazzo municipale e la folla in occasione della inaugurazione della lapide in ricordo dei sedici giovani carraresi caduti nelle guerre di Indipendenza, questi elementi possono essere facilmente desunti. Colori ocra scuri a base di terre e calce spenta sugli intonaci, i volumi delle strutture allegeriti da decorazioni orizzontali e longitudinali in calce bianca o graffiate, rosso pompeiano o ocra brillante per i palazzi dei casati più eminenti; attorno, nelle colline, non boschi ubertosi, ma pendici terrazzate con l’assiduo lavoro di secoli, coltivate a vite, grano e ortagliee in alcune parti ad oliveto; quindi il bosco di castagni e verso le sommità alpestri, il bosco ceduo e il pascolo.

Una città vivace, una città laboratorio e come tale ricordata da numerosi e illustri visitatori. Nel 1820 così veniva descritta da Emmanuele Repetti ” … sentesi da ogni dove risuonare martelli e scalpelli, vedonsi da per tutto blocchi sparsi, informi gli uni, altri abbozzati, altri finalmente che hanno ricevuto coll’ultima mano l’estremo pulimento, adornare i numerosi studi ed officine di quella piccola ed animata città” : e ancora, sul suo diario che poi fu edito con il titolo Viaggio in Italia, il 22 gennaio 1845 Charles Dickens così tratteggia la città:” Carrara, tutta circondata da alte colline, è una città chiara e piuttosto pittoresca. Pochi turisti vi soggiornano; e la popolazione è tutta più o meno occupata con la lavorazione del marmo(…) E’ fornita di un bel teatrino, appena costruito: ed è interessante l’uso di formare un coro di cavatori, che sono autodidatti e cantano ad orecchio. Li ho ascoltati in un opera comica e in un atto della Norma; e se la cavarono molto bene”. Ben 25 anni dopo Carlo Magenta in un contesto politico e sociale assai diverso, così descrive le proprie impressioni in modo non dissimile da quelle riportate dagli autori precedentemente riportati: “ Niuna città offre una fisionomia più spiccata di quella che ha Carrara. Piccola com’è, non contando che dieci mila abitanti, tiene occupate nell’industria de’marmi tre mila persone. Non appena il viaggiatore entra in quelle mura, si accorge di essere un centro di grande attività economica: qui ei vedrà tra grandi saldezze e bianche lastre, là riputati opifici; in molti luoghi gli uomini a digrossare il marmo, a bozzarlo, a segarlo, a impomiciarlo; in altre, carrate di marmo e operai intenti a introdurlo nelle officine piene di scaglie, di scarpelli…e adorne di insuperabili modelli…Se 42 segherie armate di 200 telai e 20 frulloni sorgono sulle rive del Carrione, 115 officine di scultura e d’ornato si annumerano nell’interno della piccola e laboriosa città. Disse Camillo Cavour che Biella è la Manchester d’Italia; e alcuno, forse con maggior verità, potrà dire che Carrara, fatta differenza dal prodotto, è la nostra Mulhouse”.

cavatori

Una città laboratorio insomma, vivace e chiassosa: una fisionomia urbana che abbandonerà definitivamente solo a seguito delle grandi ristrutturazioni urbanistiche degli anni ottanta e novanta. Nostro compito sarà quello di descrivere i motivi strutturali di un così rapido cambiamento.

Nella ricerca archivistica avviata allo scopo di strutturare la documentazione necessaria al presente saggio, emerge con chiarezza che, ancora nella prima metà degli anni ottanta, nei progetti edilizi presentati, la tipologia abitativa più diffusa è quella della casa laboratorio: sotto ampi spazi per lo studio o il laboratorio introdotti da stipiti e portoni possenti, sovente ad arco; nella parte meglio esposta alla luce la galleria delle opere e, a primo piano la residenza, a volte gli uffici. Per completezza di informazione voglio annotare che si registra, proprio negli anni ottanta a Marina di Carrara, un vasto movimento edilizio di case residenziali molto caratteristiche, spesso case della buona borghesia carrarese che edifica la casa al mare: nel 1883 è già esistente la piazza, con aiuole tenute a verde ed adornate di fiori e la fontanella a pagoda verso la spiaggia.

Una delle più determinate risoluzioni coerentemente portate a compimento dagli uomini che a Carrara avevano fatto il Risorgimento e che ora erano distribuiti nelle postazioni strategiche della amministrazione e nelle principali istituzioni  fu la volontà di rimodellare lo spazio urbano in funzione dei nuovi rapporti sociali ed economici che si erano andati affermando: infatti come nota Pietro Giorgieri, “ al momento dell’Unità Nazionale Carrara, a differenza di quanto generalmente accade nelle altre città italiane, è in una fase di rapida trasformazione”. Ai primi di dicembre del 1862 la tratta ferroviaria delle Mediterranee aveva attraversato il territorio comunale verso Sarzana e La Spezia. La stazione di Avenza, costruita prima in legno e quindi in muratura in località detta “Piombara” non soddisfaceva i carraresi che lottarono non poco per avere la ferrovia alle porte della città e per dare inizio all’ambizioso progetto della ferrovia per le cave: il 10 settembre 1866 la sottolinea (underline o anderlino) Avenza-Carrara arrivava alla stazione ferroviaria di San Martino: da qui sarebbe partito il tracciato dell’ardito progetto della ferrovia del marmo. Stavano maturando tutte le premesse per la costruzione di una città nuova che della “modernità e del progresso” avrebbe fatto la propria bandiera.

I liberali carraresi, diedero battaglia anche sul tema del riordino toponomastico della città e vollero dare l’ impronta della loro egemonia attraverso la “cristallizzazione” nei luoghi e negli spazi urbani dei “miti” del patrio Risorgimento. Vennero cancellate molte nomenclature delle strade intitolate a fatti religiosi, come a cancellare il ricordo della dominazione pretina e austriacante. Via del Purgatorio diviene via del Plebiscito, piazza del Luogo Pio  piazza d’Arme, via del Crocefisso divenne via Cavour e via Lunense, via dell’Angel Custode via S.Piero. E molte furono le lapidi marmoree che il Municipio pose a ricordo di artisti locali o di fama internazionale che qui avevano lavorato o semplicemente ricevuto i natali, in una ricerca di quel “genius loci” caro a molto romanticismo europeo e, anche, nella convinzione di dovere costruire rapidamente una identità culturale condivisa e unitaria. Ecco in quale direzione andava la relazione presentata al Consiglio Comunale di Carrara, in data 14 agosto 1868, dalla commissione comunale creata allo scopo di stendere un progetto di “Riordinamento delle piazze e vie della città di Carrara e sobborghi”, commissione composta da due figure determinanti per la completa comprensione dei fatti del primo ventennio postunitario:  il conte Emilio Lazzoni, professore, insegnante di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti e l’avvocato Cav. Andrea Passani, primo Presidente della Camera di Commercio, socio onorario della Accademia stessa, e presidente del Casino Civico, luogo di incontro e di affari per “eccellenza” della elite cittadina e dei commercianti di marmi, italiani e stranieri.

L’opera del Lazzoni è maggiormente conosciuta: garibaldino combattente  nel 1849 a difesa della Repubblica Romana, fondatore della più importante biblioteca di lingua italiana in sudamerica- donò nel 1867 ben 1000 libri alla Tribuna Italiana di Buenos Ayres- e Andrea Passani, otto mesi di carcere duro nell’ergastolo austro-estense, perché condannato durante gli stati di assedio del ’57 per attività rivoluzionaria. Sulla base degli studi condotti sarei portato ad affermare che la Carrara moderna e definitiva che conosciamo sia una precisa “filiazione intellettuale” di queste due eminenti figure risorgimentali.

Questa relazione Lazzoni-Passani è a nostro giudizio determinante al fine di individuare l’inizio di un filo, di un percorso storico; da tale relazione nascerà l’anno successivo, il 1869, la prima pianta di Piano Regolatore, ideato dagli ingegneri Vincenzo Luchini e conte Carlo Lazzoni, modificato in parte nel 1874 dagli ingegneri Giuseppe Turchi, responsabile dei lavori della costruenda Ferrovia Marmifera e Telesforo Simonetti, ingegnere comunale.

Dalla tabella allegata a quella relazione è possibile ricavare la distribuzione di palazzi e residenze delle famiglie più in vista non a caso sempre citate quali punto di riferimento per comprendere l’esatta ubicazione di strade o vicoli, e spesso dette strade portavano  il nome delle famiglie che vi risedevano, quali il vicolo Negroni, che diverrà poi vicolo dell’Arancio; vicolo Sarteschi, poi Chiasso di via Nuova; via dei Groppini; sotto la volta Zanolini, poi chiasso dell’Arancio, Volta del Livi, poi via del Mercato.

La principale direttrice di espansione della Carrara borghese, lungo lo Stradone di San Francesco – un rettifilo polveroso che portava “alla Calamecca” dove era il convento francescano dei Minori Osservanti – vedrà a partire dagli anni cinquanta, l’edificazione di numerose residenze-laboratorio. Prima, attorno al 1850, fu casa Pelliccia, del Cav. Ferdinando Pelliccia,  direttore della Accademia, costruita  dirimpetto a questa. E’ stata, fino alla presente inaugurazione di Palazzo Binelli, la prima sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara. Nel lato meridionale dello Stradone, dinnanzi casa Pelliccia, ritroviamo in mappa un edificio lineare, semplice, a  due piani, costruito negli anni  cinquanta. Detto edificio, completamente ricostruito dal Caselli che salverà solo parte delle mura perimetrali di fondazione diverrà Palazzo Binelli.

Ancora salendo lungo lo Stradone, si incontrava il Laboratorio di Architettura e Ornato del Cav. Prof. Vincenzo Bonanni collegato alla propria palazzina e sullo stesso lato settentrionale della strada la palazzina Bienaimeé con la facciata ornata dalle copie in creta dei bassorilievi eseguiti in marmo dal Thorvaldsen. Sullo stesso lato, proseguendo, il Laboratorio di Architettura e Ornato di Garibaldi Giuseppe e subito dopo il Laboratorio di Scultura del Prof. Alessandro Biggi. Quindi, una volta che si fosse attraversato il tracciato della ferrovia, il Laboratorio di Scultura del Prof. Girolamo Malatesta. Tutti questi edifici, puntualmente inseriti nella guida di Carlo Lazzoni, furono realizzati negli anni ’50-60. Anche casa Giannotti, dove nel 1859 nel costruire le fondamenta della stessa venne rinvenuta un olla colma di monete romane d’argento del II° secolo a.C. Uno spazio sostanzialmente vuoto, uno spazio di prossimità che senza il passaggio della ferrovia sarebbe rimasto semplicemente spazio.

Quella classe politica che aveva avviato la trasformazione urbanistica di Carrara, che  l’aveva circondata di ville e residenze patrizie, non si era posta, se non in termini tutt’altro che concreti,  il problema delle abitazioni per il popolo, per la massa di salariati che cresceva molto più rapidamente di ogni previsione.

Si avviò a partire dagli anni sessanta un processo di vera e propria proletarizzazione della città storica. Dapprima la città crebbe in altezza in ogni suo dove; lo dimostrano le serie archivistiche: un piano, due piani in più, ristrutturazioni e ampliamenti. Possiamo affermare che la città storica divenne presto sede di una strana convivenza tra le vecchie famiglie mercantili, avviate ad una inesorabile decadenza e il proletariato del marmo, costretto a condizioni di convivenza durissime, così ben descritte dal Milani e parimenti denuciate nella “Memoria” di Girolamo Fiaschi nel 1894. Nei miseri tuguri del Caffaggio, di Grazzano, di Caina e Vezzala, delle borgate a monte e al piano i lavoratori ebbero la loro definitiva emarginazione in quanto classi subalterne e incontrarono quelle idee di giustizia e di riscossa che ebbero tanto seguito tra il proletariato apuano.

Di quello stacco fisico tra città popolare e città borghese ne divenne interprete “fisico” l’alto poggio dell’ex giardino ducale che, con il suo muro collegato al vecchio castello principesco, dava il senso di un lungo bastione naturale che separava le due città: da una parte la città popolare, vivacissima, con decine di mescite di vino, negozi di pizzicagnolo, botteghe, norcinerie, con il mercato delle erbe e i primi negozi “svizzeri” di pasticceria, caffè e coloniali e dall’altra i quieti ed ordinati quartieri della borghesia cittadina. Quartieri rapidamente cresciuti all’ombra della imponente caserma di fanteria e di quegli edifici “in grande scala” che Carrara mai aveva veduto. Sapientemente disegnati  e realizzati dall’ing. Leandro Caselli di Torino tra il 1884 e il 1890, avevano stravolto le tradizionali proporzioni urbane imponendo un modello assolutamente nuovo per la città.

Avendo a lungo analizzato gli elementi di questo problema, mi sento di affermare che in fin dei conti Caselli fu lo straordinario interprete di un sogno appena abbozzato.

Quando nel 1880 vide la luce “Carrara e le sue ville” del Conte Carlo Lazzoni –  Architetto e Ingegnere, così giustamente si presentava ai lettori- si propone in apertura del volume  la  “Fototipia del Piano Regolatore di Carrara ideato nel 1869 dagli Ing.Vincenzo Luchini e Conte Carlo Lazzoni modificato in parte nel 1874 dagli Ing. Giuseppe Turchi e Telesforo Simonetti”.

L’idea proposta dal piano è impressionante: costruire una città tre volte più grande dello stato attuale occupando per intero gli spazi ancora agricoli del pianoro a nord e ad est della città. E tutto in relazione al nuovo asse di sviluppo dettato dal tracciato della Ferrovia Marmifera. Questa pianta delinea con chiarezza le linee decisive dello sviluppo cittadino: l’asse di via Verdi, già stradone di San Francesco, l’asse di quella che sarà via Roma, l’asse di via Cavour; ma nulla prevede di alternativo per il collegamento alla marina. Come acutamente osservava Antonio Bernieri, “in questi anni, tra il 1860 e il 1874, Carrara prepara il suo futuro sviluppo urbanistico” e ancora “la città fu concepita come la città di una sola classe sociale. Pensata per il solo ceto borghese e non per la classe lavoratrice che cresceva molto di più.”

La guida redatta da Carlo Lazzoni nel 1880 descrive ampiamente o forse “cristallizza” Carrara; appare una guida più utile ai carraresi che non ai turisti. Lazzoni è tutt’altro che un conservatore eppure il popolo è uno sfondo variopinto. Non entrano in questa narrazione le forti tensioni sociali culminate nello sciopero dei cavatori del 1872.

La  guida è “positiva”, tratta di arte, di bellezza, non scende sotto la superficie delle cose – come avviene ancora oggi in molte pubblicazioni patinate- Il suo fine è ri-costruire l’identità, celebrare il progresso delle laboriose classi medie e della ristretta elite dei maggiorenti: palazzine moderne e sontuose, ricche di marmi e preziose suppellettili, laboratori di scultura ornati da gessi e sculture dirette ad ornare piazze e palazzi delle maggiori città del mondo, ville e casini di campagna, sparsi nelle colline e nel piano, palazzi nobili. Moderni e lucenti bars che si contrapponevano alle sordide cantine, scuole tecniche e ginnasiali per i figli della buona borghesia, balli di gala nel grande salone della prestigiosa Accademia di Belle Arti, centro della scultura marmorea e della cultura cittadina, il Teatro degli Animosi dove si susseguivano balli di società, rappresentazioni teatrali e soprattutto liriche, il Casino Civico, che nelle sue stanze ospitava la buona società nei suoi ozi, svaghi ed affari. Questo, del 1864, è l’interessantissimo “Elenco dei soci fondatori il Casino Civico di Carrara”: Baratta Aristide, Baratta Giovanni, Bajni Luigi, Bardi Antonio, Binelli Lorenzo, Binelli Giuseppe, Binelli Carlo, Bigazzi Giovanni, Bonanni Vincenzo, Boni Colombo, Brizzi Achille, Casoni Ariodante, Carusi Cybei Tommaso, Cucchiari Giovanni Battista, Cabrini Francesco, Del Nero Cav. Francesco, Del Nero Giuseppe, Del Medico Conte Cesare, Del Medico Conte Alessandro, Fontana Annibale, Fabbricotti Nicola, Fiaschi not. Ferdinando, Fabbricotti Giuseppe, Fabbricotti Carlo, Goldemberger Giovanni, Ghetti Iacopo, Ghetti Demetrio, Goody Giovanni, Goody Carlo, Lodovici Stefano, Lazzoni Conte Carlo, Lazzoni Conte Giulio, Lazzoni Conte Emilio, Lazzerini prof. Giuseppe, Lazzerini Augusto, Marchetti Agostino, Micheli Ferdinando, Mezzani Enrico, Manfredi Carlo, Monzoni Conte Ferdinando, Nicoli Pietro, Orlandi Giuseppe, Pelliccia Ginesio, Passani Avv. Andrea, Pasquali Avv. Epaminonda, Peghini Dott. Giuseppe, Pollina Carlo, Robson Tommaso padre, Robson Tommaso figlio, Salvini Francesco, Sarteschi Carlo, Sarteschi Luigi, Siccardi prof. Avv. Ferdinando, Tacca Avv. Giuseppe, Triscornia Alessandro, Triscornia Ferdinando, Triscornia Odoardo, Tenderini Dott. Giuseppe, Torrey Franklin, Visdomini Didimo, Bienaimé Francesco. Una fotografia “scritta” della elite liberale carrarese tra Risorgimento e fine di secolo. L’elenco dei soci di questa “benemerita istituzione” è già, di per sé, l’elenco della elite dominante ; l’elenco di coloro i quali ricopriranno le cariche elettive nelle amministrazioni locali, provinciali e parlamentari, dei sindaci di nomina regia, dei consigli di amministrazione delle banche, dell’ Ospedale Civico, della Camera di Commercio. Poco studiate nei loro riti sociali, nei complessi intrecci famigliari e di interessi, le borghesie urbane carraresi rappresentarono un caso singolarissimo nella regione. L’emulazione del modello di vita anglosassone, da cui traevano l’essenza del liberismo economico e politico di cui si dicevano fautori. Dell’Inghilterra e degli inglesi mutuavano cultura, lingua e stile, inviando regolarmente i propri rampolli a fare studi e pratica di mercatura a Londra o a New York; e gli stessi gusti anglosassoni entravano nel disegno e negli arredi delle loro sontuose dimore. Il classico salotto borghese ricco di pesanti drappeggi, di tavoli e sofà in noce, del biliardo, dei marmi pregiati e dell’immancabile orologio a pendola, il salotto tipico di tanta letteratura ottocentesca lo ritroviamo puntualmente nei leziosi inventari dei beni del Casino Civico o dell’eredità di Domenico Andrea Fabbricotti ai figli.

Una borghesia compiutamente ottocentesca, entusiasta per i progressi della scienza e della tecnica, capace di progettare e  intraprendere la costruzione di una tra le più ardite e alte strade ferrate d’Europa destinata al trasporto dei marmi; e degli illustri turisti, quali i membri del Congresso Geologico Internazionale del 1883, condotti a visitare quella straordinaria catena orografica delle Apuane  e quella millenaria opera dell’ uomo che sono le cave, ormai note in tutto il mondo grazie alla fotografia, alle litografie, alle centinaia di soggetti rappresentati nelle cartoline postali.

Una borghesia che si preoccupò di dare forma razionale ad un territorio che non era stato ancora ufficialmente rilevato, producendo agli inizi del terzo decennio unitario la dettagliata carta orografica in scala 1: 2000 delle Apuane, redatta dall’ ing. Fossen o dando vita, nel 1888 ad una nutrita sezione carrarese del Club Alpino: una borghesia non ancora dedita alla rendita finanziaria, pronta a reinvestire nel proprio lavoro e nei propri sogni, una borghesia che aveva – nel bene o nel male- Carlo Fabbricotti, vulgo “Carlazz” quale  modello di assiduo e instancabile ” lavoratore”. Una classe che non ebbe mai ritegno nello spregiudicato utilizzo del potere che la sua supremazia economica gli aveva dato, anche quando quella politica venne meno, sempre più scalzata dall’azione dei democratici, degli internazionalisti, dei loro circoli, dei loro giornali. Una borghesia anche contraddittoria capace di improvvisi e paternalistici atti di generosità verso i propri lavoratori, o di una cruda e fatalistica insensibilità nello scontro economico con la vecchia aristocrazia marmifera; contraddittoria quando, per alleviare le durissime condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne doveva metter mano al portafoglio, non come gesto liberale, ma come gesto dovuto alle nuove imposizioni patrimoniali previste dall’amministrazione democratica del 1877; o capace, infine, di contraddizioni apparentemente più strane, come quella di Carlazz nell’ avere tra i principali e stimati agenti di cava l’attivissimo e altrettanto conosciuto internazionalista  anarchico Brandisio Merlini. Questa elite cittadina, profondamente ed intimamente legata al marmo e alle sue alterne fortune divenne la controparte necessaria del complesso scontro di classe che caratterizzò la vicenda storica carrarese dall’unificazione nazionale all’ avvento del fascismo.

Lo Svegliarino“, interprete di oltre un trentennio di battaglie democratiche era ben diversa cosa dai giornali finanziati dai baroni del marmo, ma si trovava sulla loro direttrice in occasione delle sempre più frequenti battaglie campanilistiche tra una Carrara moderna e industriale e Massa dipinta come baluardo di arretratezza.

Gli anni ’50 furono anni chiave per lo sviluppo della moderna industria dei marmi apuani. Furono gli anni in cui, grazie al regolamento sugli agri marmiferi del’46 iniziò la corsa all’ accaparramento privatistico delle cave più redditizie e degli agri liberi da parte di un ristretto gruppo di famiglie di recente ricchezza; furono gli anni in cui le case di rappresentanza presso i maggiori mercati di sbocco divennero veri e propri centri regolatori della domanda internazionale, e le stesse rappresentanze delle ditte di marmi divennero sedi delle legazioni consolari d’Italia a New York, Buenos Ayres, Montreal.

E’ condivisibile l’impostazione del Gestri quando afferma che gli anni dal ’61 al ’79 furono contrassegnati da una crescita a ritmo discontinuo, più marcata “in quei settori solo scarsamente interessati dallo sviluppo registratosi nel decennio preunitario”, attuando una sorta di riequilibrio sui nuovi livelli industriali.

La crescita dell’ esportazione di grezzi, sebbene quantitativamente superiore a quella dei marmi segati, finiti o lavorati, ha un indice percentuale nettamente inferiore a quello di questi ultimi relativamente il periodo 1872-79; infatti posto 100 come l’indice della media relativa il quinquennio 1838-42, la crescita percentuale per il quinquennio 1872-79 sarà del 606% per i grezzi e del 1.117% per i segati.  Questo dato è quindi altamente indicativo delle modificazioni occorse nel periodo e nelle variazioni della domanda internazionale che, stando ai dati riportati dal prof. Carlo Magenta nella sua nota conferenza “Delle condizioni presenti dell’industria e del commercio dei marmi in Italia e della rispettiva legislazione”, letta la sera del 22 novembre 1872 presso la locale Camera di Commercio, quantificava dette interessanti modificazioni in oltre 10.000.000 di lire il valore del commercio estero procurato dai marmi apuani per il solo 1870.

Dagli inizi degli anni ’70 i salari si assesteranno su livelli stabili per circa un ventennio, a fronte di un continuo indice di incremento dei prezzi dei generi alimentari e dei fitti, creando nel corso degli anni settanta e, naturalmente in connessione ad una forte crisi della agricoltura apuana nei primi anni ’70 e alla fase  economica di recessione  internazionale che cominciò a farsi duramente sentire in Italia nei primi del ’74, una lunga serie di tensioni sociali dalle quali, la zona apuana, non restò certo immune.

D’altro canto, i fenomeni di concentrazione e di scala da parte delle  famiglie dei “baroni del marmo” erano assai evidenti.

Nella statistica allegata al progetto per una “Nuova strada automatica dalle cave carraresi al mare” avanzata dall’ing. Bourelly nel 1867, interessante per l’estremo dettaglio delle informazioni, abbiamo un quadro della distribuzione e della tipologia e della proprietà delle cave, delle segherie e dei laboratori.

La sola famiglia Fabbricotti impiegava ben duecentocinquantotto operai nelle ventitré cave in attività gestite direttamente, e possedeva otto segherie con trentanove telai, trentadue operai adulti e otto ragazzi, nonchè uno studio di architettura e ornato con quattordici operai; Il Conte Andrea Del Medico e fratelli possedevano quarantacinque cave di cui trentaquattro attive e duecentosettantotto operai impiegati, e una segheria con quattro telai, tre operai e un ragazzo; i Lazzoni nove cave e centoquarantanove operai, i Sarteschi diciasette cave e novantacinque operai, il Conte Monzoni tredici cave e settantatre operai e due segherie, la prima con due telai e due operai, la seconda con dodici telai e dodici operai, i Binelli sedici cave, novanta operai e due segherie con due telai ciascna e una terza a Pontecimato, modernissima, con otto telai e otto operai. Seguivano altri proprietari di cave di una certa importanza, quali i Cucchiari, i Passani, i Marchetti, Guglielmo Walton, Lorenzo Tacca, i Baratta, Vincenzo Bonanni, Filippo Bardi. Lo studio di scultura di gran lunga più importante era quello del Bonanni che impiegava ben ottantadue operai. La più importante segheria era certo quella del Walton a Groppoli (1857), con dodici telai, seguita da quella dei Binelli a Pontecimato e quella dei Fabbricotti al Fiorino, poco sopra Avenza. Dette costruzioni apriranno la strada ad una successiva “colonizzazione” della piana carrarese da parte degli opifici industriali, situazione indicativa di una tendenza necessaria a costruire nuovi e moderni edifici industriali con ampie necessità di spazio e piazzali per il deposito dei prodotti lungo l’asse tracciato tra il torrente Carrione e la ferrovia marmifera.

Raffrontando questi dati con la tabella pubblicata dal Tenderini nel 1874, si nota la seguente caratteristica: tutte le segherie collocate a sud della città adottarono il “nuovo sistema Bramanti” e così gran parte delle segherie di proprietà dei gruppi famigliari di recente ricchezza, segno di un forte investimento di capitali impegnato nella realizzazione di nuovi e più funzionali edifici industriali; le segherie al piano di Carrara passarono da 7 a 10 e i telai impegnati da 52 a 68. Gli opifici industriali passarono da 42 a 53 e i telai da 190 a 252. Di poco superiore, invece il numero degli operai impiegati.

Un ulteriore elemento di comparazione storica ci viene sempre fornito dal Tenderini; allega infatti una piccola tabella riportante quanto segue: anno 1820, 28 segherie e 266 lame; anno 1863, 38 segherie, 74 telai e 888 lame, anno 1874,  53 segherie, 252 telai e 3024 lame. Nel 1880 infine le segherie sarebbero diventate 63, con 269 telai e oltre 3300 lame

Già molti meno sono nelle tabelle del ’74 i proprietari di cave e segherie di vecchia tradizione aristocratica, e naturalmente è molto più consistente il peso delle famiglie dei nuovi”baroni del marmo”, che hanno acquisito gran parte di quei patrimoni a discapito dei primi, coinvolti in un declino inesorabile. Credo si possa tranquillamente dedurre che una mutazione avvenuta in così breve tempo possa significare il definitivo passaggio ad una industria di tipo capitalistico e la affermazione di una moderna borghesia capitalistica, più consona “allo spirito dei tempi”.  Il grande fenomeno di concentrazione dell’industria marmifera e di omogeneizzazione della base produttiva andò sempre più consolidandosi nel corso degli anni ottanta quando solo sette gruppi famigliari-industriali, i Fabbricotti, i Dervillé (subentrati ai Del Medico), i Binelli e i Sarteschi, i Lazzoni-Goody (eredi del Walton, scomparso nel 1878) e i Peghini, spesso imparentati tra loro, controllavano oltre un terzo delle cave e il 70% della produzione. La svolta decisiva fu la realizzazione nel 1876 del primo tronco della Ferrovia Marmifera Carrarese, che collegava in modo rapido ed efficace ai centri di trasformazione e stoccaggio le 387 cave  in attività sul totale di 685 aperte alla data del 1879 : 197 nel canale di Torano ( 25 di statuario, 167 di bianco ordinario, 3 di bardiglio grigio, 1 di venato e 1 di paonazzo), 86 nel canale di Miseglia-Fantiscritti ( 2 di statuario, 68 di bianco ordinario, 14 di venato, 1 di bardiglio grigio e 1 di paonazzo) e 104  nel canale di Colonnata ( 94 di bianco ordinario, 7 di venato e 3 di bardiglio) .

Furono necessari vent’anni prima che il progetto, inizialmente proposto dal Conte Andrea Del Medico, reduce da un soggiorno di un anno a Londra, venisse finalmente portato alla discussione del consiglio comunale il quale, nel 1864, diede incarico di preparare un progetto all’ing. Stefano Caudana, direttore dei lavori della costruenda tratta di ferrovia tra Carrara e la stazione sulla linea nazionale ad Avenza.

Una intricatissima serie di vicende, tipica della “questione ferroviaria “di quegli anni, rimandò di un decennio l’inizio dei lavori di quella che sarà sì una ammirata opera di ingegneria ma che riuscì a scatenare interessi fortissimi, aprendo un contenzioso tra comune e Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, dicastero presieduto dall’Avv. Castagnola, il quale con R.D. del 12 aprile 1871 attribuì la concessione della ferrovia ad un gruppo finanziario capeggiato dal Marchese Lotaringio Della Stufa, dal Cav. David Barlassina e dal Conte Giuseppe Friangi, scatenando le ire dei notabili e della amministrazione comunale che fu patrocinata in appello dal notissimo giurista Francesco Carrara. La contraddizione tra la scelta del Comune, il quale aveva dato una concessione privata, e il competente ministero, che ne aveva avvocata una pubblica e quindi di sua competenza, a favore di un gruppo finanziario facente capo al Marchese Lotaringio Della Stufa fu all’origine di una situazione di instabilità politico-amministrativa del comune apuano. La vicenda giudiziaria ebbe strascichi che andarono ben oltre la realizzazione della stessa opera; opera finanziata dalla Banca Nazionale Toscana e sostanzialmente diretta e voluta dai “baroni del marmo” che, per mezzo della ferrovia, si garantirono il controllo del trasporto dei marmi, la valorizzazione di nuove cave e infine, l’esenzione dalla contribuzione ai costi di gestione dell’opera, costi che, come accennato in altra parte, lasciarono la Banca Nazionale Toscana scoperta di oltre 10.000.000 di lire.

In effetti, la questione ferroviaria fu decisiva nel determinare il futuro urbanistico della città. Il piano Lazzoni Lucchini venne discusso e approvato in consiglio comunale il 7 maggio 1869. “Il piano di Carrara, non a caso, è il secondo in Toscana (se si eccettua quello di Firenze capitale) ed è coevo, se non antecedente, ai piani per città come Milano, Napoli, Torino” osserva acutamente Giorgieri. Non è quindi una modernità apparente, ma è l’esempio di una classe dirigente capace di progettare il futuro della propria città; una città la cui crescita non è prevista da una pianificata forma di intervento pubblico, come La Spezia, perché destinata ad un ruolo militare strategico e quindi oggetto di massicci investimenti infrastrutturali pubblici, ma di una città che cresce con le sue proprie forze.

Eppure, cinque anni dopo venne compilato il “Piano Regolatore della Città e dei Suburbi” ad opera dell’ingegnere Giuseppe Turchi direttore dei lavori della costruenda Ferrovia Marmifera e dell’ingegner Telesforo Simonetti, capo dell’ufficio lavori pubblici del comune. Una concomitanza che parla da sola. Il Piano Turchi Simonetti prevedeva la costruzione sopra uno spazio di circa 14 ettari di una realtà edilizia capace di assorbire circa 15.000 nuovi abitanti da sistemarsi in case bifamigliari e quadrifamigliari e prevedeva anche la costruzione di nuovi spazi destinati alla lavorazione dei marmi, nella zona di Canal del Rio, dove sorgeranno a breve studi di scultura notissimi quali il Nicoli, Berretta, Triscornia e Andreani.

Il “Piano regolatore e di Ampliamento per la Città di Carrara” fu approvato con regio decreto il 28 novembre 1875. Nei fatti, il piano del 75, sebbene impostasse le intenzioni relative le direttrici del futuro sviluppo urbanistico della città, non trovò concreta attuazione in virtù delle modeste risorse disponibili e ancor più per la situazione di forte tensione presente nella amministrazione cittadina tra il 1868 e il 1874.

In questo quadro si colloca il complessivo “fallimento” delle amministrazioni moderate della regione e il loro progressivo superamento. Fallimento, sotto il profilo “sociale”, di incapacità a interpretare i nuovi bisogni di una città in rapidissima crescita e trasformazione. Su queste basi avvenne la conquista del comune di Carrara da parte dei progressisti nel 1877. La forte recrudescenza delle agitazioni operaie ed internazionaliste degli anni ’70, le scissure interne al blocco sociale egemone, la scarsità delle risorse finanziarie del comune crearono, sommandosi, le condizioni per una affermazione del blocco progressista carrarese che, sostenuto dal giornale “Lo Svegliarino” (rilevato da un gruppo di azionisti dissidenti della Banca del Popolo di Firenze) e con l’appoggio del “Circolo popolare educativo” conquistò l’amministrazione civica nelle elezioni del 1877, indette per il rinnovo parziale del consiglio.

Il nuovo indirizzo amministrativo, primo nella regione lunense, si  caratterizzò subito per una politica favorevole agli strati sociali più deboli della popolazione: un programma per l’assistenza sanitaria e per la costruzione di alloggi popolari e indirizzando la propria azione verso una maggiore tassazione dei profitti di impresa e sgravando quella indiretta e diretta sui meno abbienti. Si profilava anche l’inizio di una crisi ciclica del settore marmifero, una crisi che si sarebbe acuita nei primi anni novanta e che, unitamente alla “questione sociale” e al contrasto sempre più evidente tra condizioni di vita dei lavoratori e sfarzo del ceto alto borghese sfocerà nei noti “moti del ‘94”. L’esperienza della “sinistra storica “carrarese, più o meno parallela con l’affermazione politica di Agostino Depretis a capo del governo nazionale, scontò in certa misura le medesime contraddizioni. Sempre più si allargarono le posizioni politiche in origine figlie della democrazia risorgimentale, anche nel campo mazziniano. Il movimento internazionalista rafforzava il proprio radicamento nelle masse dei lavoratori del marmo e il socialismo si affacciava timidamente sulla scena. La classe dirigente fu incapace di intercettare i cambiamenti in atto e fece il proprio “mea culpa“ dopo il ’94, anche con un certo coraggio, come quando il deputato moderato Binelli Cherubino si recò a Casale Monferrato per testimoniare a favore degli insorti. Le elezioni amministrative del 1883 portarono alla ribalta una giunta guidata dall’energico Cav. Agostino Marchetti che era determinato ad attuare un processo di profondo rinnovamento urbanistico della città. Questo però significò gravare sui ceti meno abbienti con la introduzione della cinta daziaria e il rinvio”sine die” del gravoso problema degli alloggi popolari. La “questione delle abitazioni”così tipica delle città industriali dell’ottocento, si rispecchia alla perfezione nella Carrara dell’epoca, confermandone le peculiari caratteristiche industriali ed europee.

Intanto nel 1880, l’ adozione del corso forzoso della moneta aveva stimolato -come in molte città italiane- l’acquisto di proprietà immobiliari e quindi una tendenza assai forte verso la speculazione edilizia. A Carrara molti che fino al decennio precedente avevano sempre reinvestito i profitti dell’industria in migliorie tecniche, ammodernamenti e acquisizione di cave o di rendite agricole nelle città vicine, vuoi per condizionarne la amministrazione, vuoi per calmierarne la concorrenza in campo marmifero, iniziarono a scoprire “il mattone” come moderna forma di rappresentazione sociale.

Questa fortunata serie di concomitanze permisero di imprimere una svolta definitiva alla realizzazione degli indirizzi del piano. Nacque finalmente una città nuova, quella che noi conosciamo: mancava l’artefice.

Quando Leandro Caselli arriva a Carrara, nel dicembre 1883, non ha ancora compiuto 30 anni. E’ nel pieno delle forze fisiche ed intellettuali ed ha una solida formazione culturale e professionale. Soprattutto ha dinnanzi a se una città che è semplicemente “progetto” e con tutte le condizioni politiche economiche e finanziarie favorevoli alla realizzazione delle proprie idee. Vincitore del concorso per la copertura del posto di ingegnere comunale Leandro Caselli arriva a Carrara a fine 1883, a due mesi dall’insediamento del nuovo consiglio Comunale e della amministrazione democratica presieduta dal sindaco Agostino Marchetti ( in carica dal 15 settembre 1883 al 31 ottobre 1889). Forse, dietro questa venuta c’è qualche sollecitazione o suggerimento di qualche importante personalità politica subalpina. Più probabilmente Caselli è l’uomo giusto per concretizzare quel progetto di totale trasformazione della città che era iniziato un ventennio prima. Inizia con metodo un lavoro di riorganizzazione del lavoro di ufficio, della gestione del fatto amministrativo attraverso criteri di modernità ed efficienza che fanno la differenza: le filze documentarie del periodo in questione, relative l’Archivio Comunale di Carrara e conservate presso l’Archivio di Stato di Massa sono tra le serie archivistiche più dettagliate e fornite della regione lunense. Ogni fatto che concerne lo spazio pubblico, da una modifica edilizia, la costruzione di un nuovo edificio, la realizzazione di un cancello fino alla modesta insegna di un negozio di barbiere deve passare l’approvazione della commissione comunale. La città non è spazio caotico, lasciato alla iniziativa e al gusto di chicchessia, piuttosto progetto ordinato, equilibrio di gusto, forma e colore. Come potrebbe essere diversamente per una città che pretende, e con successo, di abbellire il mondo con la propria industria?

L’opera di Caselli spazia straordinariamente dagli interventi più modesti fino alla realizzazione di grandi volumi, e non è esagerato sostenere che modella in poco più di un lustro il volto della città. La borghesia locale è affascinata dalle capacità del personaggio, dalle sue intuizioni, dalla sua capacità espressiva attraverso volumi, materiali e tecniche costruttive di assoluta modernità. Quasi tutte le maggiori famiglie cittadine, le istituzioni pubbliche e private chiedono a Caselli la progettazione e la esecuzione di opere di grande prestigio. In questo periodo la città vede la presenza di maestranze qualificate piemontesi capaci delle tecniche costruttive più avanzate. Insomma Carrara, in quel periodo, è alla pari delle grandi città italiane ed europee. L’architetto Daniele Marzocchi, cui sono debitore di molte indicazioni e notizie, ha bene sviluppato questo rapporto tra Caselli e l’ambiente politecnico subalpino. Nelle sue “minute”allegate ad atti amministrativi e progetti si comprende la determinazione nella ricerca della migliore soluzione possibile per ogni problema che una città moderna non può eludere. A partire dalla pubblica igiene.

Alessandro Volpi ci ricorda che nell’estate 1884 Carrara fu colpita da una epidemia di colera che provocò centoventi vittime e centinaia di ammalati, l’anno successivo il 1885 fu travolta da una straordinaria alluvione e che, ancora nel 1886 si ebbe ancora una nuova epidemia colerosa. Il sistema fognario di Carrara, primo nel comprensorio, resta ancora attuale per razionalità, funzionalità e completezza. Una stazione di stoccaggio dell’acqua ai piedi della Foce permetteva, la sera e in particolare di estate, l’apertura di chiuse capaci di spazzare gli impianti fognari da ogni residuo. Tale rete venne realizzata anche nei paesi e nei quartieri popolari, con non poco sollievo alle difficili condizioni di vita. Colpisce anche l’ampio utilizzo di spazi verdi da inserirsi nel nuovo tessuto cittadino. Nel progetto di sistemazione di Piazza d’Armi o Risorgimento, come si chiamava allora, viene incaricato il prof. Giuseppe Roda “disegnatore di giardini”: forma, struttura ed essenze arboree le ritroviamo ancora oggi, parecchi anni dopo quel 3 agosto 1887. Un decennio prima, in occasione della inaugurazione del monumento a Pellegrino Rossi il 3 settembre 1876, vediamo il pubblico assiepato nella spianata e arrampicato lungo uno stradello che sale alla Levatella. Caselli progetta e fa realizzare il meraviglioso muro bugnato di marmo che contiene il poggio su cui si costruisce l’edificio delle scuole Saffi. Dalla disamina della mappa allegata alla deliberazione consigliare n° 21 del 28 aprile 1886 relativa alla “nomenclatura di nuove vie e piazze di città” le scuole non sono ancora previste, mentre lo sono la caserma dei Regi Carabinieri, l’Asilo Garibaldi e la grande Caserma di Fanteria a noi nota come “Dogali”. Dalla piazza del Risorgimento parte la prospettiva razionale che corre nei due sensi, verso i monti di marmo e verso il mare, ovvero i due estremi in cui è contenuta la ricchezza della città. Sempre a Caselli dobbiamo l’intuizione e il primo abbozzo del viale XX Settembre, di quel corridoio razionale capace di unificare tutto il territorio. Non è possibile in questa sede tracciare che l’essenziale circa l’opera di questo “illustre dimenticato” che ora, in virtù della notevole opera di restauro e di valorizzazione compiuta dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Carrara, torna di cocente attualità.

Anzi, questo forse è il senso profondo dell’intervento raccontato in queste pagine: comprendere a fondo questa determinate pagina della nostra storia e la incredibile attualità del progetto.

Era assai chiaro che il piano precedente doveva considerarsi superato nei fatti’ questa amministrazione che con delibera del 5 luglio 1886  incarica l’ingegnere Leandro Caselli di effettuare “nuovi studi per il piano di Regolamento e di Ampliamento della Città”. Si legge nella delibera “. Quindi “ Il nuovo Piano Regolatore e di Ampliamento per la Città di Carrara” venne approvato dal Consiglio Comunale il 10 settembre 1887 e modificato lievemente il 10 luglio 1888. “E’ urgente uno studio più accurato del piano Regolatore della Città perché nell’attuale, fatto unicamente in base alle tavole Catastali, si riscontrano errori grossolani la cui correzione esige un tempo lungo troppo e dispendioso”. La prima stesura del piano, elaborato da Caselli è del 20 luglio 1887 e immediatamente si legge come l’orizzonte degli interessi sia notevolmente ampliato e come il piano sia all’altezza delle più significative esperienze urbanistiche italiane del periodo. Scrive il Caselli : “ Carrara, centro industriale, prende il posto che le conviene nella vita odierna delle città che aspirano a diventare civili. Sta infatti che se ora dalle statistiche governative risulta classificato il comune di Carrara tra il 50 e il 55 per importanza numerica di popolazione e la città non ultima fra le cento d’Italia, fra trentanni al più tardi, il Comune di Carrara sarà compreso fra i primi trenta d’Italia e la città fra le prime sessanta. Questi numeri servono a chiarire a chicchessia la vera importanza di Carrara allontanando le timorose previsioni dei pessimisti e le iperboliche profezie che si facessero dagli ottimisti entusiasti di un benessere o di una posizione di immaginaria importanza. L’ampliamento e il miglioramento della città, quale venne immaginata dall’Amministrazione Comunale e tradotto in progetto dall’Ufficio Tecnico, è proporzionato alle previsioni di un avvenire di 30 o 40 anni e proporzionato pure alle possibilità di darvi esecuzione nel periodo di 20 o 25 anni. Misuri chiunque l’importanza e lo stato mediocre attuale delle città italiane che hanno ora la classificazione che indubbiamente verrà ad avere fra 25 o 30 anni Carrrara e troverà nulla di troppo nel concepimento delle opere progettate pel nuovo Piano Regolatore e di Ampliamento; troverà anzi deficienza di grandiosità e di opere di pubblico decoro se pensa che di anno in anno si aumenta il desiderio del pubblico e privato benessere e colla modernità delle cose si cerca di stare all’altezza del pensiero moderno”. Progetta anche lo spostamento del tracciato ferroviario esistente in città e la costruzione di una circonvallazione stradale:

1) “Ha speciale importanza lo studio della strada di circonvallazione. Questa strada che si allaccia colla via Carriona al bivio di Vezzala attraverso le località di Monterosso, del Bugliolo, S. Francesco, Canal del Rio, S. Ceccardo mantenendo la sua sede a poca distanza dalle falde dei colli montagnosi che circondano Carrara; fra S. Ceccardo, e le località di Stabbio e S. Martino conviene mediante una strada trasversale al Carrione ed alla strada ferrata della Società Mediterranea la congiunzione di questa strada colla via Carriola per modo che viene formato il circuito della via dei carri che giustifica in modo approssimato quel nome di circonvallazione”.

2) “ Una nuova strada, la cui costruzione si rende inevitabile fra pochi anni, la quale serve a congiungere con regolare andamento planimetrico ed altimetrico la città colla Marina e che dovrà sostituirsi per molti effetti alla via Postale non escludendo che possa anche dirsi la succursale della Carriona.” E’ il Viale XX Settembre. Progettato con venti anni di anticipo sulla sua effettiva realizzazione.

Quale fu la formazione intellettuale e tecnica di questo grande progettista? Alcuni “cenni sulla vita e l’indole”vengono forniti nell’opera di Daniele Donghi, “L’Architettura Moderna alla Prima Esposizione Italiana di Architettura”. Vediamoli : “Leandro Caselli, nato nel 1854 a Fubine, in provincia di Alessandria, attese in Torino fin dall’infanzia agli studi, laureandosi presso la Scuola degli Ingegneri nell’anno 1876”(…)“La predilezione con cui si era applicato alle arti del disegno ed alle fabbriche civili, colla scorta dell’esempio e degli ammaestramenti del fratello maggiore, architetto Crescentino , professore nell’Accademia torinese di Belle Arti, e l’ispirazione delle opere di celebrati maestri, quali l’Antonelli, il Promis , colle proficue lezioni dei professori Ceppi, Castellazzi, Riccio e Reycend, lo posero in grado di applicarsi efficacemente in Roma al proprio perfezionamento nella sua qualità di assistente alla cattedra di Architettura, presso quella nuova e stimata Scuola di applicazione degli Ingegneri. In quel ambiente saturo di ogni potenzialità, in quella Scuola dove il senatore Cremona aveva raccolto con tatto finissimo quanto di meglio potevano dare Roma e l’Italia come docenti nella scienza e nell’arte, l’ingegnere Caselli, osservando e confrontando, sotto il fascino speciale che esercitano le immani classiche rovine e le secolari costruzioni e ricostruzioni di Roma, nell’amichevole scambio di idee col chiaro prof. Gui , titolare della cattedra, la sua cultura andava allargandosi e la sua personalità artistica nettamente si disegnava assimilandosi le migliori caratteristiche dell’Architettura. Dopo quattro anni, cioè nel 1880, l’ing. Caselli accettò con animo grato la profferta fattagli dall’illustre Quintino Sella  di recarsi presso i suoi grandiosi opifici in Biella, nei quali il sommo statista era associato e parte cospicua, per accudire all’impianto di nuove fabbriche e ad applicazioni varie di ingegneria civile ed idraulica. Ivi conobbe ed apprezzò nelle sue multiformi attività la vita delle diverse maestranze biellesi in quasi tutte le arti febbrili; lo stesso contatto con molti uomini di affari e più che tutto l’occasione invidiabile di avvicinare il grande uomo di Stato, che era pure ingegnere, matematico,minerologo, arricchì il Caselli di quelle complementari qualità da rendergli in seguito meno disagevole la via per introdurre nella pratica della costruzione qualcuna delle innovazioni che ai tempi dell’architetto Antonelli parvero a molti dubbie o temerarie. Nel 1884, pochi giorni dopo la morte dell’illustre statista, presentatasi l’occasione di un pubblico concorso, l’ing. Caselli assumeva con la qualità di ingegnere capo del Municipio di Carrara, il compito della esecuzione di alcuni straordinari lavori edilizi e di risanamento, pei quali dimorò per circa sette anni in quella città”. “Toccava all’Amministrazione oculata che prese il nome dal sindaco, cav. Agostino Marchetti, il conoscere e il provvedere a tutte quelle opere di cui ancora Carrara mancava per conseguire il posto che le conviene nel concerto delle più floride e simpatiche nostre città, e spettava, per ciò che riguarda la creazione ed esecuzione delle opere materiali, all’ing. Leandro Caselli il compito di tradurre in atto i larghi propositi di quel Consiglio Municipale. E la serie delle opere , incominciata nel 1884 colla riforma delle condutture dell’acqua potabile, colla fognature della città trovata allo stato rudimentale, assunse proporzioni vaste l’iniziativa privata camminò di pari passo con quella del Comune; sorsero le splendide case decorate dei preziosi marmi carraresi dei signori Fabbricotti e Binelli, il nuovo edifizio della Camera di Commercio, un ponte in armille marmorre sul Carrione e gli edifizi scolastici sulla nuova piazza del Risorgimento ; si costruì la Caserma Dogali che doveva essere più tardi, cioè nei primi giorni del 1894, il teatro della sanguinosa repressione dell’inane tentativo della setta anarchica ; si gettarono nel 1889 le fondamenta del nuovo Politeama che venne inaugurato il 12 novembre 1892, appena dopo che l’ing. Caselli abbandonò la trasformata città di Carrara per intraprendere una nuova fatica: l’impianto dell’Ufficio d’Arte presso il Municipio della cospicua città di Messina”.

Il Donghi ci propone una scheda biografica per poi subito passare all’elemento di maggiore interesse, ovvero la presentazioni delle motivazioni professionali che stanno alla base del gusto estetico e delle tecniche costruttive del Caselli: “e fra tutti gli edifizi predilesse le scuole, e quelle che sopra suoi disegni sorsero a Carrara ed a Messina  stanno li ad indicare quanta larghezza di vedute presiedesse ai suoi concepimenti professionali. Egli fu eclettico in fatto di motivi architettonici, convinto che l’architettura attraversi un periodo di transizione in cui il vecchio più non è possibile ed il nuovo non lo è ancora”.

Non credo, onestamente, si possa aggiungere di più ad una definizione così obiettiva.

“Deplorò la copia, divenuta di moda in Germania ed in America, dello stile greco puro, ma deplorò egualmente le esagerazioni del nuovo stile se pure tale può richiamarsi quella tendenza che cominciata col preraffaellismo si è ridotta per opera di molti ad una stravagante fantasmagoria di forme bizzarre più vuote ancora di quelle antiquate che intendeva sostituire. Più che seguire il preconcetto di uno stile come un tutto organico ed immutabile possiamo dire che il Caselli evitò lo stile classico, soprattutto se irrigidito nelle regole del Vignola, simbolo secondo lui d’immobilità deplorevole, e si compiacque delle forme del rinascimento arricchito da accenni al barocco buono e sobriamente intercalate da qualche motivo dell’arte nuova. Quando i materiali glielo consentirono non nascose la sua predilezione per la scuola antonelliana , la cui caratteristica principale è, come si sa, il predominio dei pilastri, degli archi e delle volte, i primi rappresentanti quelli che il caposcuola si compiaceva di chiamare fulcri e sui quali infatti è destinato a riposare l’edifizio. Ma dove la scuola antonelliana appare essenzialmente moderna si è nel sapiente e largo impiego del materiale metallico, particolarmente sotto forma di tiranti per eliminare le spinte degli archi e delle volte in mattoni. Sotto questo punto di vista si può dire che l’Antonelli abbia precorso la distribuzione di uffici che nelle costruzioni modernissime riscontriamo in quella unione di barre di ferro e di strutture murarie che si è convenuto di chiamare cemento armato. A Roma, a Biella, a Carrara, a Messina seppe conquistare gli animi, non con la simpatia vuota delle cortesi maniere, ma di queste vestendo la sua azione modificatrice ed istruttiva e conseguendo così più facilmente il nobile scopo prefissosi, lasciando sul suo passaggio una striscia di luce non effimera. Egli ebbe le doti dei maestri del rinascimento fondendo mirabilmente, con l’intuito che la natura gli aveva dato, le nozioni tecniche della statica con quelle tecnologiche essenzialmente pratiche e creando in tal modo durante la sua, pur troppo non lunga, vita professionale, specialmente a Carrara ed a Messina, delle opere che non morranno”.

Purtroppo a Messina le cose andarono diversamente. Dell’opera del Caselli resta ben poco. Il tremendo evento sismico del 1908, due anni dopo la morte di Leandro Caselli, distrusse la quasi totalità delle sue opere. Anche Carrara subì un danno. Non sono mai tornate le carte, le fotografie, i progetti e gli interventi maggiori condotti dal Caselli nella nostra città. Portati a Torino nel 1890 per la grande Esposizione Italiana di Architettura, li sono rimasti. Dal noto articolo del critico Camillo Boito, -fratello di quell’Arrigo scapigliato- “La prima esposizione italiana di Architettura”, apparso sulla “ Nuova antologia di scienze lettere e arti”riportiamo una nota di colore sulla grande confusione creativa del momento e un giudizio sull’opera di Caselli. ” Manca un mese alla inaugurazione, mancano tre settimane, mancano quindici giorni, ed ecco affluire a Torino un monte di casse. Il Ministero della Istruzione vuole non so quante centinaia di metri quadrati per isciorinare i disegni dei rilievi e dei restauri di monumenti italiani, che i suoi architetti eseguiscono da Susa a Girgenti. Il Ministero dei Lavori pubblici vuol mostrare le proprie glorie edilizie, i ponti, i porti ; quello della Guerra le sue caserme, i suoi arsenali; quello dell’Interno le sue carceri, i suoi lazzaretti. Il Comune di Milano manda scuole, macelli, cimiteri, musei, barriere, mercati; molti altri Municipi italiani e stranieri spediscono piani regolatori delle città, progetti di risanamento, di fognature, di acquedotti. Giungono materiali da costruzione, oggetti per compimento e decorazione di fabbriche, una caterva di libri, un subisso di fotografie. La ferrovia porta roba da Calcutta, da Rangun, dal Congo, da Porto-Principe delle Grandi Antille, da Colombo dal Oceano Indiano. Misericordia! I membri del Comitato torinese si mettono le mani nei capelli, chiedendosi l’un l’altro: — dove cacceremo noi questo ben di Dio? Troppa grazia, troppa grazia! — E fanno alzare tramezze, e appiccano i telai in tre o quattro file sovrapposte, ed in mezzo alle sale collocano gli oggetti d’arte industriale e i materiali da costruzione. Quasi settecento espositori, mentre nella Esposizione nazionale del 1884 erano stati appena un centinaio: quattordicimila disegni, a dir poco, senza il resto. Insomma il di 28. settembre tutto era in ordine, e le eccellenze dei ministri della Istruzione e della Marina poterono inaugurare la Mostra. Fu il trionfo dell’architettura: un via vai di gente sino al 8 del dicembre, un nuvolo di signore; talché, non soltanto il Comitato, soccorso grettamente dal Governo e dal Comune, uscì dall’impresa senza debiti, ma potò annunziare l’avanzo di parecchie migliaia di lire.”(…) “Ci vogliono uomini che abbiano fuoco nel sangue ed amore per un’ idea, e che per questa sappiano combattere e soffrire : uomini per cui nulla sia il trionfo di sé, e tutto quello dell’Arte, e che per essa siano decisi ad ogni cosa, anche a soccombere e a farsi schiacciare. Io sono di questi. No, non credo punto necessario che la nuova dottrina venga fecondata di sangue. È professata finora, se non m’inganno, da tre soli credenti: il giovinetto pre-lodato, ingegnere Crescentìno Caselli ed il fratello di lui Leandro, piemontesi. Anche i due fratelli son giovani. Vigorosi di corpo simpatici di aspetto, attivi, pronti, ricchi di cognizioni e d’ingegno, inclinano meglio a fare che a ciarlare. Il primo da parecchi anni insegna quale professore titolare nell’Accademia Albertina; il secondo da capo ingegnere nel comune di Carrara passò, mesi addietro, capo ingegnere nel comune di Messina. Il primo ha costrutto parecchi edifici, fra i quali uno immenso, che misura 350 metri di fronte sopra 100 di fianco, costa più di due milioni e serve a due mila ricoverati, l’Ospizio generale di Carità in Torino; il secondo ha dotato Carrara di una quantità di vaste fabbriche d’ogni sorta, oltre al piano regolatore della città: il palazzo delle scuole, la caserma, l’asilo infantile con una grande sala per balli di beneficenza, la sede della Camera di commercio, il Politeama, molte case private. Lasciò, insomma, la città rinnovata, e glielo dissero in prosa e in verso nel cordiale banchetto d’addio, e glielo scrissero nella pergamena miniata, che reca le firme del sindaco, degli assessori, dei più notabili cittadini; sicché s’è visto il miracolo, che un ingegnere, dopo avere fatto spendere milioni ad un Comune piccolo, parta inghirlandato di lauro:

Sì va, va pure, che de’ tuoi trionfi,

Quando a noi l’eco ne verrà sull’ale

Della fama, fu qui, diremo tronfi.

Leandro Caselli nei molti edifici dianzi citati ricorse alle architetture già composte da secoli, alle forme fiorentine del medio evo, a quelle del Quattrocento, a quelle del Cinquecento; vi si trovano i consueti cornicioni, le solite bifore, le ordinarie bugnature, tutto il corredo degli stili, trattati con qualche impaccio, ma senza ombra di singolarità personale. Né si può dire che queste ornamentazioni non s’accordino con la costruzione antonelliana interna, perchè, qualunque sia l’organismo statico, ci son finestre, ci sono porte, ci sono arcate, ci son grondaie, e’ è tutto il rimanente, come in tutte le architetture di questo mondo, e, a non voler lasciare lei muraglie miseramente nude, bisogna pure che l’architetto vi aggiunga quelle forme decorative, le quali sembrano a lui più opportune e meglio confacenti al suo sentimento e al suo gusto. Col sentimento e col gusto si entra nell’arte”

Con la partenza di Caselli da Carrara si chiudeva una stagione: la rappresentazione urbana della città post-risorgimentale era ormai codificata. L’impronta era data e molte opere furono concluse nell’assenza fisica di Leandro Caselli. La quantità e la qualità delle opere pubbliche e private da lui disegnate è semplicemente impressionante. La grande borghesia marmifera gli commissionò progetti: a volte gli chiese di intervenire anche sopra edifici in corso d’opera, e fosse per moda o per gratitudine, Caselli interpretò al meglio quel gusto e quella stagione. Gratitudine per avere dato imponenza ed euritmia ad una città che si specchiava nella propria consapevolezza di essere apogeo di modernità e di ricchezza, di essere insomma tra le poche città italiane conosciute nel mondo.

Poi, lentamente, la città iniziò ad espandersi nelle direttrici che Caselli aveva previsto ed immaginato. Nuovi stili e nuovi materiali, sempre giustapponendo, difficilmente sostituendo; ed è stata una fortuna. Passeggiare per Carrara potrebbe voler dire attraversare secoli di architettura.